«Se non paga il riscatto muore»

«Se non paga il riscatto muore» «Se non paga il riscatto muore» «Ma a primavera cerchiamo di liberarla» IL SUMMIT DEL CLAN SMILANO E non paga il riscatto rischia la vita», è la minaccia di Rocco Lumbaca, uno dei sette arrestati nel blitz di due giorni fa. «Quindici miliardi sono buoni...», gli fa eco uno sconosciuto, forse uno dei due carcerieri di Alessandra Sgarella, non ancora identificato da polizia e carabinieri. «Cinquanta, deve restare...», non fa sconti Enzo Lumbaca, anche lui in manette dopo questo summit, intercettato dagli inquirenti il 24 maggio scorso. C'è tutto il clan, al summit dentro il frantoio dei Lumbaca in località Contrada Boscaino, frazione Castellace di Oppido Mamertina. E dentro al frantoio ci sono le microspie, le telecamere nascoste che riprendono tutto mentre fuori, gli agenti registrano ogni parola. Alessandra Sgarella è da cinque mesi nelle mani dei rapitori, nascosta in qualche anfratto dell'Aspromonte. I suoi carcerieri si sentono sicuri, invincibili, imprendibili. Tanto da parlare liberamente. «A primavera, cerchiamo di liberarla...», minaccia Rocco Lumbaca. Che ha già immaginato un sequestro lunghissimo, un riscatto da incassare subito per poi dire agli Sgarella che era solo una tranche, solo un acconto. «A primavera...», dice che è già maggio e allora non può essere che la primavera dell'anno prossimo. «La portiamo là in quel campeggio...», assicura «Peppe», uno dei due carcerieri non ancora identificato. «Si risolve in quindici giorni e ci freghiamo i soldi...», fa i conti Rocco Lumbaca. «Quando vedo i soldi...», sogna «Peppe». Mentre a «Pino» Anghelone, il camionista che lavorava per una società legata agli Sgarella e per questo viene considerato il basista del gruppo, basta una frase, per spiegare cosa c'è dietro ai sequestro: «Perché i soldi... Devo morire di fame, io non ho una lira». Tra quelle frasi intercettate non c'è un indizio che porti alla prigione di Alessandra Sgarella. Si parla di un «buco» forse in un campo, «della donna che è qui, in campagna», ma anche di un ostaggio da «spostare». I toni sono quelli sicuri di chi si sente protetto dalla montagna, invulnerabile alle battute degli agenti su per l'Aspromonte. «Quasi miliardario sei...», è la battuta in calabrese stretto che Vincenzo Lumbaca fa al suo omonimo zio. Un sogno a portata di mano, dunque. Anche se nel clan non mancano le divisioni, tra una linea dura e una morbida, tra chi vorrebbe i soldi subito anche se pochi e chi invece vuole ricorrere a minacce pesantissime pur di alzare la cifra, da estorcere agli Sgarella. «Fagliela questa richiesta e taglia la testa al toro, taglia la testa al toro...», è il consiglio di Domenico Russo, detto 1'«esaurito». «Pagano i Sgarella...», assicura Vincenzo Lumbaca. Mentre Francesco Lumbaca, il telefonista della banda, quello che per disattenzione o imprudenza ha messo gli inquirenti sulla pista giusta, aggiunge so lo: «Pagano in contanti...». Ma i disaccordi non si placano. «Dal sequestro sei fuori?», chiede Francesco Lumbaca. «Nooo!», risponde Peppe. E an- cora, gli chiede: «Tu ci devi dire se stai fuori da questo sequestro... Tu sembri a quello che viene fuori da questo sequestro, tu sembri a quello...». Minacce, discussioni sugli anticipi, lamentele: «Io sto in montagna...». C'è di tutto, in quel gruppo di allevatori e contadini, un passato da niente nella criminalità, diventati improvvisamente sequestratori. Ci sono anche le minacce, quelle fatte arrivare agli emissari di Alessandra Sgarella. E quelle dirette al padre dell'imprenditrice sequestrata. Come conferma Francesco Lumbaca a una domanda di «Peppe», che vuol sapere cos'ha detto il padre della Sgarella: «E allora... dove cazzo sono i soldi... vi do vostra figlia». Tra loro, parlano di una lettera, quattro fogli con poche frasi di Alessandra Sgarella. La lette- ra verrà imbucata il giorno dopo, a Firenze, da Pino Anghelone. Parla di una missiva precedente, anomala rispetto a quelle fatte arrivare. Scrive, l'imprenditrice: «Volevano farmi scrivere una lettera di minaccia, a marzo... Io mi sono rifiutata... Alla fine di aprile mi è stato chiesto di intestare una busta con l'indirizzo della persona che ci faceva da tramite, ma non mi hanno detto cosa avrebbero scritto. Posso immaginare il contenuto...». I miliardi, il riferimento preciso alla sequestrata, la lettera di Alessandra Sgarella e le minacce di far proseguire all'infinito il rapimento. C'è tutto questo nelle frasi intercettate al summit. Eppure ci vorrà ancora un mese prima di arrivare agli arresti, al blitz che adesso fa sperare i due pm Alberto Nobili e Alfredo Robledo. Un lavoro da certosini, il loro. Un lavoro iniziato con l'ausilio di apparecchiature tecniche e arrivato subito a importanti risultati, grazie alla prontezza di un poliziotto. «Siete pronti?», chiede una voce sconosciuta a una persona vicina alla famiglia di Alessandra Sgarella. Due parole, meno di due secondi per pronunciarle. Ma il telefono dell'emissario era già sotto controllo, l'analisi dei tabulati Telecom dà una risposta immediata: la telefonata è partita alle 19 e 03 del 2 aprile da una stazione di servizio dell'autostrada Salerno-Reggio, all'altezza del casello di Gioia Tauro. Due giorni dopo, arriva un'altra telefonata, questa volta da Palmi, sempre in provincia di Reggio Calabria. Chi chiama dice solo «Domodossola». E' la parola d'ordine, è l'inizio della fine per i sequestratori. Nel commissariato di Gioia Tauro viene installato il Digisistem, un'apparecchiatura elettronica in grado di identificare in tempo reale la provenienza delle chiamate da una determinata zona. Il raggio d'indagine si restringe tra Palmi e Gioia Tauro. Per comodità, la Telecom mette fuori uso sessanta cabine tele- foniche nella zona. Il 13 aprile, alle 10 e 40 del mattino scatta l'allarme. Qualcuno sta chiamando uno degli emissari della famiglia Sgarella dalla cabina telefonica con numero 0966.479518, in località Pieternere di Palmi. Un agente è a meno di cento metri, arriva di corsa. Fa in tempo a vedere due persone, prende il numero di targa della loro auto. Li descrive: «Chi telefonava aveva i capelli scuri non curati, un tipo goffo. L'altro, fuori della cabina aveva i capelli brizzolati all'indietro, il "cuccularo" cioè il doppio mento e la pancia». Quei due, ma per identificare l'ultimo ci vorrà un mese, sono Francesco Lumbaca e Pino Anghelone. I loro telefoni vengono messi sotto controllo, con diverse chiamate coinvolgono altre persone. Parlano di lettere da spedire, da far arrivare a Milano. Della partita è anche Domenica Curro, la moglie di Pino Anghelone. E' lei che gestisce una parte degli invìi di missive, con le richieste di riscatto e con le modalità dei pagamenti. Assieme alle lettere ci sono gli annunci sulle colonne del «Corriere della Sera», compravendita di immobili. Si parla di ville in Toscana con maneggio per i cavalli e di capannoni industriali in zona Ovest Milano. Cambiano anche le parole d'ordine, adesso si parla di «occhiali». Negli annunci si parla di cifre, ogni ettaro un miliardo. Dai cinquanta miliardi della prima richiesta si scende a quindici. I sequestratori insistono, vogliono di più, minacciano ritorsioni sull'ostaggio. Anche la famiglia Sgarella, attraverso inserzioni in codice, prima chiede una prova di vita, poi fa la sua offerta. Arriva fino a 4 miliardi e cento milioni, con un'inserzione giovedì scorso. Quando il blitz per gli arresti è già pronto. Dopo che polizia e carabinieri hanno capito che quelle frasi - «Ci prendiamo i soldi e li freghiamo» - pronunciate nel summit al frantoio, sono la prova che il sequestro rischia di essere ancora lungo. i Fabio Potetti I SOLDI «Quindici miliardi sono buoni... Ma no, devono restare tutti i cinquanta» LA PRIGIONE «La donna è qui in campagna, nel buco in mezzo ad un campo» IL TRASPORTO Uno dei carcerieri «Portiamo la donna prigioniera in quel campeggio»