A Gerusalemme, prigioniera del mito

A Gerusalemme, prigioniera del mito Il grande sogno del sionismo, rimasto incompiuto, è ostacolato da un integralismo non troppo diverso da quello islamico A Gerusalemme, prigioniera del mito / nuovi storici ebraici contro la mentalità del ghetto I TORMENTI DI ISRAELE PUÒ' sembrare paradossale», ragiona Uan Greilsammer, storico delle mentalità all'università di Bar Ilan, «se si considera l'attivismo di Netanyahu, la sua volitiva aggressività. Ma la verità di Netanyahu è altrove: in realtà gli israeliani che lo hanno scelto e che continuano a preferirlo nei sondaggi vogliono innanzitutto il riposo, anche se illusorio. Implorano la quiete, dopo le grandi tempeste provocate negli animi dalla pace di Rabin. Dopo le immani mobilitazioni di Churchill, hanno invocato Attlee, per non vedere e non pensare. Netanyahu è come Attlee. Corre precipitoso, ma per meglio restar fermo sullo stesso punto. Precisamente questo trompe-l'oeil acquieta la gente». Il libro di Rosenblum si intitola: Spleen Israeliano - Tougat hasraéliout. «Ma non è precisamente spleen, o malinconia», spiega lo scrittore, «Tougat è più intenso: èAngst, angoscia metafisica. Un'angoscia che secerne il satanico stato di inerzia cui vien dato il nome di destino ebraico». Un viaggio nei pensieri d'Israele conduce ultimamente a queste sponde. A questo spleen diffuso, a questa incertezza su se stessi, sulla propria identità: non è più del tutto sicuro cosa significhi esistere come nazione ebraica, e se tale esistenza teologico-politica sia possibile il giorno in cui la nazione perderà i nemici palestinesi che hanno dato senso al suo esistere per mezzo secolo. Verrà il momento in cui toccherà spartire con loro eretz Israel, la terra d'Israele, e non pochi convincimenti sionisti ne risentiranno. Il convincimento di poter divenire una nazione assolutamente normale in primo luogo, nonostante la fusione sempre più forte tra politica e religione, fra l'esser israeliano e l'esser ebreo, fra tempo storico universale e tempo storico speciale, separato. L'idea stessa della Terra è in contrasto con la normalità, non è più spazio geografico per fuggiaschi o abitanti di ghetti, ma diventa terra mistica, le cui frontiere e il cui significato sono atemporali perché attribuiti agli ebrei non da eventi terrestri, ma dalla biblica voce divina. Non si cambiano i confini di una terra assegnata dal Signore, ammoniscono gli ultraortodossi che hanno stretto alleanza con Netanyahu e che si chiamano haredi: coloro che hanno paura, terrore di Dio. Non esiste per gli ebrei d'Israele l'obbligo che hanno popoli normali, nonché mortali: l'obbligo di uscire dal mito, di congedarsi dal paradiso immoto dell'Elezione divina. L'obbligo di cadere nella Storia: nelle sue necessità, nel suo tempo scorrevole. Netanyahu non ha semplicemente interrotto le trattative di pace iniziate a Oslo. Ha fatto molto di più: ha scansato lo spleen israeliano e lo svigorimento sionista congelando la storia nazionale, immobilizzando la sua identità divenuta incerta, fermando in definitiva il tempo. Per questo dà l'impressione di correre veloce pur restando allo stesso posto, come la Regina Rossa in Alice nel mondo dello specchio. Netanyahu garantisce la fuga dalla storia, e promette un'esistenza di Israele Underground - sottoterra come gli jugoslavi nel film di Emir Kusturica che escono da una lunga permanenza rimbecillente nelle cantine della storia comunista: cantine dove niente è cambiato dal '45, e la guerra non è mai finita contro i nemici di ieri. Secondo Rosenblum, è tutta una parte della società che fa secessione dal sionismo laico, e «oscilla ormai tra passato remoto e futuro messianico, senza più né vedere né pensare il presente». H passato remoto è la chiusa vita nel ghetto, circondato da universi ostili. Il futuro è nelle terre bibliche conquistate nella guerra dei Sei giorni: guerra vissuta dagli integralisti non come episodio bellico, ma come evento messianico, come esperienza di Redenzione. Per molti an- ni prima di morire, il filosofo Yeshayahu Leibowicz denunciò - solitario - questa deriva messianica del popolo israeliano: questo culto pagano della terra, e dello Stato sacralizzato. Ora le sue argomentazioni sul neo-paganesimo ebraico sono amplificate da intellettuali, giornali, e il conflitto tra laici e integralisti si estende. Il 29 maggio, sul quotidiano Ha'aretz, Azmi Bishara parla addirittura di fascismo ebraico, e chiede una radicale revisione del sionismo. Avishai Margalit, filosofo all'università ebraica di Gerusalemme, mi spiega che per la prima volta si assiste a una congiunzione fra nazionalismo, religione, antidemocrazia. «Non è più la "religione civile" di Ben Gurion, con i suoi simboli e rituali che segnalavano la preminenza dello Stato sulla fede. Il nazionalismo israeliano rompe oggi i legami con il sionismo, con la storia europea, e da questo punto di vista è del tutto erroneo ragionare sulla cultura giudeo-cristiana. L'odierno integrali¬ smo politico-tribale somiglia piuttosto a quello dell'Islam. I nostri ultraortodossi vogliono imporre le regole ebraiche della halakha, allo stesso modo inflessibile con cui il tribalismo islamico fa prevalere la sharia, la legge coranica. E' una religiosità politica nuova, nata essenzialmente fra gli ebrei orientali, nelle città più derelitte o nelle colonie costruite sui territori occupati: venuti dall'Africa del Nord o dallo Yemen, i sefarditi sono pieni di rancore verso gli europei ashkenazi che hanno egemonizzato il Paese dopo la nascita dello Stato, e sono gli elettori di Netanyahu o del nuovo partito religioso sefardita, Shas». Alcuni, come gli yemeniti, vogliono vendicarsi per antiche offese: in particolare, accusano i sionisti laboristi di aver trafugato centinaia di bambini negli Anni 50, e di averli affidati a genitori ashkenazi quando i profughi di Aden erano nei campi di transito. L'assassino di Rabin, Yigal Amir, accennava spesso a questo crimine mai elucidato, che ancora tormenta la comunità yemenita cui apparteneva. Margalit non crede in un furto pianificato di bambini, ma mi ricorda il sistematico sprezzo laborista verso gli orientali. E' lo stesso sprezzo mostrato verso i fuggitivi etiopici, come testimonia il diario pubblicato in questi giorni in lingua ebraica dal console israeliano a Addis Abeba (Micha Feldman, Esodo dall'Egitto). Così, quasi inavvertitamente, si infiltrano parole singolari nel conversare israeliano. Il capo laborista Ehud Barak chiede pubblicamente perdono ai sefarditi, e non pochi responsabili nel suo stesso partito si domandano scandalizzati se l'ebraismo non stia cristianizzandosi, e perciò mquinandosi. Nuovi storici come Benny Morris fanno luce sulle responsabilità israeliane nell'espulsione dei palestinesi, durante la guerra di indipendenza del '48, e designano il peccato originale della nazione: peccato di orgoglio, di utopia semi-bolscevica, commesso da una classe dirigente sionista che si installò in Palestina espellendo 700.000 indigeni e compiendo massacri lungamente occultati. Lo slogan sionista era: «Una terra senza popolo per un po¬ polo senza terra», e fu questo il peccato originale: la negazione dell'esistenza d'un popolo in Palestina, prima che arrivassero gli ebrei. «E' vero», mi dice Morris, «l'idea del peccato indelebile è più cristiana che ebrea, e forse il termine è sbagliato. Ma è pur sempre una colpa, che comporta responsabilità e che ci obbliga a negoziare una pace che Israele ha eluso per cinquant'anni». E' la colpa di un sionismo divenuto ideologia, fabbricatore di miti assai simili ai totalitarismi di questo secolo: miti della terra paganamente adorata, dell'etnia eletta, dell'Uomo Nuovo, della preminenza del Progetto ideale sulle vite individuali. Greilsammer mi dice che i nuovi storici hanno eroso simili miti, originando il gesto sconvolgente di Rabin che tende la mano a Arafat. Molti tra coloro che incontro sostengono che in Israele è come se fosse caduto un muro di Berlino, il giorno in cui Rabin ha cominciato a pensare la pace: c'è stato senso di liberazione, ma si son anche manifestate le regressioni etnico-religiose che Netanyahu incarna. Rosenblum aggiunge: «L'ideologia sionista annunciò un'epoca di normalità per gli ebrei, ma poi lasciò il lavoro compiuto a metà, come un ponte che non raggiunge la riva opposta. Perché un Paese diventi normale occorre separare Stato e chiesa, leggi civili e religiose. Occorre disgiungere anche l'israeliano dall'ebreo, perché non ha senso considerare cittadino dello Stato un ebreo di New York. E' l'incompiutezza sionista che permette agli integralismi di espandersi, ai tribalismi ebraici di rimettere radici: molti, troppi israeliani odiano oggi l'idea stessa di normalità, anelano a essere odiati, hanno nostalgia della tribù chiusa, del ghetto, l'ino a perdere il senso dello Stato e della democrazia». Secondo Greilsammer, questa è d'altronde una vocazione ebraica antica: «La vocazione a esaltare il proprio ruolo di vittima, a venerare le date delle proprie storiche sconfitte: sconfitta sulla rocca di Massada lungo il Mar Nero, sconfitta dell'inutile, disastrosa rivolta di Bar-Kochba contro l'impero romano, sconfìtta della Shoah». Rinasce così la mentalità del ghetto, prosegue Rosenblum, e «ghetto vuol dire appunto marmellata: sei solidale con i tuoi, e perennemente votato ai disastri. Non difendi più la tua esistenza come ai tempi sionisti, ma hai la niente completamente mvasa dall'idea del possibile, probabile, clandestinamente concupito sterminio. Rabin è stato ucciso perché incarnava la normalità, non più desiderata. Il sionismo è una grande idea incompiuta, che adesso fallisce. Adesso non resta che una religione etnico-politica, e Israele si ri-giudaizza». Barbara Spinelli (1 - continua) «Per la nostalgia della tribù chiusa si perde il senso della democrazia» «Una parte del Paese sfugge al presente Oscilla tra passato e futuro messianico» «La gente ha scelto Netanyahu perché promette di congelare la storia» Una manifestazione di ebrei ultraortodossi a Gerusalemme Secondo alcuni dei nuovi storici israeliani, l'integralismo ebraico minaccia la stessa essenza dell'originale progetto sionista Sopra, Rabin insieme con Peres A sinistra, il premier Netanyahu