Quel poco che resta di Lhasa

Quel poco che resta di Lhasa Quel poco che resta di Lhasa Nella città vecchia assediata dalla Cina moderna 9988911 VIAGGIO SULTETTO DEL MONDO LHASA DAL NOSTRO INVIATO Per avere l'immagine del Tibet moderno in un solo colpo d'occhio, bisogna arrampicarsi per la ripida scala che porta al Gangki Bar, sulla terrazza di fronte al Jokhang, la cattedrale di Lhasa, nel minuscolo cuore tibetano della città assediato dai quartieri cinesi. Dietro il bancone, il gestore indiano picchia indiavolato su una calcolatrice tascabile mentre un cameriere porta una birra Lhasa, vanto locale e unica droga popolare sul tetto del mondo. Nella piazza stipata di bancarelle che vendono frutta e verdura e qualsiasi cianfrusaglia, sformicola una folla di tibetani che va a fare la spesa e di pellegrini che si preparano commossi a prostrarsi davanti al Buddha incoronato. Il tempio, al fondo della piazza, i suoi pinnacoli dorati proprio sull'orizzonte del bar, è il luogo più sacro del Tibet: c'è in una cappella il Jobo Rimpoche, la statua del Buddha Shakyamuni più venerata del Paese. Davanti al grande portone, penitenti a petto nudo consumano il pavimento in migliaia di prostrazioni. Il Jokhang, che la tradizione vuole fondato nel VII secolo dal re Songtsen Gampo in omaggio alla sua nobile sposa cinese, contiene l'intera storia del Tibet: dalle iscrizioni dei primi monarchi alle cicatrici della Rivoluzione Culturale Proletaria. C'è persino, in una sala chiusa, nel lato Nord del piano superiore, una campana che porta l'incisione «Te Deum Laudamus», traccia remota del passaggio degli eroici missionari gesuiti e cappuccini. Dietro la cattedrale spuntano sul cranio calvo della montagna sacra Bumbumre le solite bandierine Lungta tempestate di orazioni perché il vento le scuota in un'interminabile lode. Per tornare precipitosamente a terra, basta guardare il lato sinistro della piazza squa- drata, dove campeggia torva la stazione della polizia cinese. Dopo le quattro grandi rivolte di Lhasa negli Anni 80, scoppiate sempre tra questa piazza e il vicino Potala, il governo ha pensato bene di mettere i suoi cani da guardia nel luogo più emblematico e turbolento della capitale: che nessuno ci provasse più. In apparenza i tempi della spietata repressione, quando nel macabro rituale rivoluzionario del Thamzing la gente era obbligata a linciare in assemblee pubbliche i presunti reazionari, sono lontani. Restano le atroci testimonianze dei vari Tempa Soepa e Ama Adhe (raccolte da David Patt), di Palden Gyatzo, rimasto in carcere 33 anni e liberato nel '92 grazie a Amnesty. Oggi il dragone cinese non si è certo addomesticato, ma veglia sull'ordine pubblico senza più lo zelo ideologico di un tempo, le sue energie sono tutte volte al nuovo dio del partito: il business. All'estrema destra della piazza, c'è il Barkhor Café (Barkhor si chiama il percorso sacro intorno al Jokhang, do- vere del buon pellegrino), punto di ritrovo specialmente dei giovani stranieri. Lungo il muro della sua grande terrazza fanno mostra di sé dei fiammanti computer coreani che un cartello dice collegati a Internet. Così è il Tibet oggi, almeno nelle poche grandi città, fra tradizione, repressione e dilagante modernità. L'idea che si prenda Internet è stuzzicante: una breccia mediatica nella fortezza totalitaria, attraverso cui possa sfuggire un refolo di libertà. Allora andiamo subito a prendere un tè al Barkhor, per collegarci, alla faccia del partito comunista-capitalista, con la massima espressione della democrazia telematica. Prima bisogna aspettare che la zelante guida tibetana si distragga per un at¬ timo. Un cameriere chiacchierone mi viene in soccorso e posso allontanarmi con la scusa di consultare gli orari degli aerei. Responsabile dei computer è una gentile e graziosa ragazza cinese di Chengdu, nel Sichuan. Le spie del modem si accendono: connessi. C'è il motore di ricerca Yahoo, yahoo! Subito faccio un po' di corti¬ na fumogena e mi collego con alcuni giornali italiani. Poi vado diritto alla meta: nello sazio riservato agli indirizzi scrivo «WWW.TIBET.COM», che è l'enorme sito del governo tibetano in esilio a Dharamsala, una miniera di controinformazione sul Tibet, che denuncia ai quattro angoli del mondo i «crimini» cinesi. Agganciato! Ma sullo schermo rimane la scritta «in caricamento», con il grafico che va avanti e indietro come impazzito. Niente da fare. Chiedo con tutta la possibile nonchalance all'impiegata cinese: «Com'è che questo sito non si riesce a vedere?». Lei arriva, guarda l'indirizzo. Non una piega. «E' un sito americano?», chiede. «Americano, forse indiano, non so», dico. «I am sorry» fa, mentre traffica sul suo computer per cercare il collegamento. Sembra in buona fede. Naturalmente alla fine non sarà possibile collegarsi a «WWW.TIBET.COM», anche se dalla lontana Italia basterebbe un attimo. Censura o reale difficoltà tecnica? Chi lo sa, fatto sta che l'esperimento è fallito. Un altro avamposto della modernità nella capitale dell'ex teocrazia buddhista è il Ghaleshang, un locale sulla Beijin Scilu, ormai in piena città cinese. E' un video bar con tutti i gadget del caso, dove si trovano mescolati giovani tibetani e cinesi dall'aria per tanto bene. Su due grandi schermi appesi al soffitto, un condor vola sulle note di una versione liberamente tratta da «El condor pasa». Il Tibet mistico dei monasteri bui e puzzolenti è lontano secoli. Sullo sfondo c'è un agghiacciante murales dove un cavallone sghembo, parente di quello di Guernica ma con le alucce, tira un aratro guidato da un antropoide altrettanto storto. Qui si beve birra americana e tedesca (made in China) e si trovano vino e whisky decenti. E' questa la modernità che non spiace a Pechino: libertà di consumare, una libertà che può benissimo convivere con il partito unico. E infatti, se si guardano i canali della televisione cinese (al Lhasa Hotel si prende la Cnn ma intanto lì i tibetani normali non ci andranno mai) si è travolti da un consumismo greve e spietato. Spot interminabili fanno sembrare le tv di Berlusconi un modello di misura e buon gusto. In uno di questi, il tipico yuppie cinese riceve una telefonata mentre è seduto sul cesso. Scatta come un falco verso l'apparecchio che squilla nel corridoio ma si inciampa nelle braghe abbassate e ruzzola a terra. La scena cambia e il nostro yuppie è ancora seduto sul trono di maiolica: trilla nuovamente il telefono. Suspense. Ma questa volta non si alza. Un sorriso e tira fuori l'indispensabile cordless: «Hello», riuscendo così a fare due cose in una. Evviva il progresso gente: il paradiso dei cinesi è qui adesso, non in qualche inaccessibile Nirvana in cui estinguersi dopo una vita di tribolazioni. Claudio Gallo Sul lato sinistro della piazza del Jokhang, sancta sanctorum del buddhismo tibetano, campeggia la stazione di polizia, sistemata dopo 4 rivolte nel luogo più emblematico della capitale Il Dalai Lama leader religioso e politico del Tibet in esilio a Dharamsala in India dal 1959. Nella foto grande, monaci nel cortile delle assemblee del Jokhang

Persone citate: Berlusconi, Claudio Gallo, Dalai Lama, David Patt, Palden, Songtsen Gampo, Yahoo