L'odio negli occhi dei tibetani

L'odio negli occhi dei tibetani HiVIAGGIO SUL TETTO DEL MONDO L'odio negli occhi dei tibetani Tra fedeli e cinesi all'udienza del piccolo Buddha LHASA DAL NOSTRO INVIATO Al monastero di Tsurpu, sperduto in cima alla valle di Tòlung, a Nord Ovest di Lhasa, una delle più verdi del brullo Tibet Centrale, si avvicina l'ora fatidica. Un centinaio di pellegrini, molti arrivati dalla lontana regione orientale del Kham, si assiepano nel cortile, sotto il sole prepotente dei quattromila. Tra poco s'inizierà l'udienza del XVII Karmapa, il quattordicenne piccolo Buddha venerato come l'incarnazione dei suoi predecessori alla guida della setta nera. Fu proprio dai Karmapa (un ramo dei Kagyupa, diviso in due scuole: berretti neri e berretti rossi) che i Geluppa, la setta che inventò la teocrazia tibetana, prese l'idea della reincarnazione dei Dalai Lama. Per questa gente che stringe in mano la sciarpa bianca da offrire, come vuole l'etichetta, al piccolo maestro, che salmodia a fior di labbra Om Mani Padme Hum, il mantra per eccellenza, la salita a Tsurpu è costata fatica e privazioni, ma ora gli occhi sono estaticamente appesi all'ingresso dell'aula delle assemblee da cui si accede all'appartamento del divino ragazzo, sorvegliato da due monaci a cui è stato detto di fare la faccia feroce. Tra questa fila disordinata, nessuno saprà mai che il presidente Clinton parlando di diritti civili nel suo discusso viaggio a Pechino, vuole ricordare anche loro, e la questione tibetana che negli anni passati ha avvelenato i rapporti tra l'America e la Cina. Alcuni pellegrini vestono all'occidentale e hanno l'aria di non passarsela così male, altri sono sbrindellati e ostentano la tradizionale avversità tibetana al sapone, al gradino pi.) basso c'è qualche njen- dicante che rigira in mano il magro bottino di pochi centeshni di Yuan, da non comprarci nemmeno un po' di orzo abbrustolito. Intorno, lentamente, pochi operai ricostruiscono gli edifici distrutti durante gli anni di sangue, il decennio 1966-1976 della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria. Allora le Guardie Rosse, da Pechino a Lhasa, distruggevano tutto ciò che avesse un'apparenza di tradizione e fucilavano per un'inezia chi non volesse essere rieducato. Nel gergo dell'utopia rivoluzionaria si chiamava la distruzione dei Quattro Vecchi: vecchie idee, vecchia cultura, vecchi costumi, vecchie abitudini. Nel giro di pochi anni furono abbattuti tutti i monasteri in un Paese che da secoli viveva aggrappato all'affollato pantheon del suo buddhismo. Il governo tibetano in esilio a Dharamsala (in India) e storici occidentali autorevoli, come il britannico Hugh Richardson, l'ultimo diplomatico occidentale a lasciare Lhasa, concordano sul fatto che dal 1959, anno della fuga del Dalai Lama, siano stati massacrati oltre un milione di tibetani, un quinto della popolazione. Quei tempi oggi sembrano lontani, il cauto riformismo di Deng è arrivato anche sul tetto del mondo e il tenore di vita, specialmente nelle poche grandi città, è migliorato. Ciò non toglie che il tibetano continui a non essere la lingua ufficiale del Paese e che la sinizzazione marci implacabile: la capitale Lhasa, dove i cinesi sono oltre il 70 per cento della popolazione, sembra ormai, tranne che per i pochi celebri monumenti, una delle tante città a Est del Mekong. E la stessa ricostruzione dei monasteri parrebbe più un'esigenza del turismo che non uqo concessio- ne di Pechino all'autonomia. Comunque, la grande paura è passata (sebbene le ultime sanguinose rivolte a Lhasa e la loro successiva repressione siano accadute in piena era Deng) e si è tornati a riverire impunemente gli antichi dei. A Tsurpu, però, quattro enormi jeep Toyota sberluccicanti che arrivano traballando sulla strada pietrosa, ricordano ai pellegrini intruppati sotto il solleone che in Tibet i tibetani sono cittadini di serie B. Dai macchinoni cala una folta delegazione cinese in visita al Karmapa: scende un grosso papavero dai capelli bianchi attorniato da febbrili funzionari in eleganti abiti occidentali e ragazze in tailleur. Una ostenta la bomboletta di ossigeno, nemmeno fosse in cima all'Everest. I caronti granata che tenevano a bada la calca tibetoide si fanno da parte con deferenza. Fino a un attimo prima bisognava lasciare borse, macchine fotografiche e cineprese sul tavolo di lamiera all'ingresso del tempio e un ruA? monaco pelato era pronto a perquisire i visitatori. I cinesi entrano senza degnare d'uno sguardo la fila accaldata, belli belli con le loro Nikon e Canon, entra persino il cameraman di una televisione. Non bisogna conoscere il tibetano per capire la salva di maledizioni che parte dal serpentone nazional-popolare ai piedi della gradinata: basta guardare gli occhi. I tibetani non sono più massacrati (anche se restajx) alcuni prigionieri politici), il loro tenore di vita è migliorato, sia merito a Pechino, ma la loro identità culturale, che non è solo un parolone ma carne e sangue, viene ogni giorno calpestata. Calpestata dai coloni Han che stanno facendo del Tibet un emporio cinese, dai giovani soldati cinesi con le loro grandi spalline rigide sulle spallucce esili e l'aria malmostosa di chi deve servire la patria a casa del diavolo, che stringono il Paese in una morsa di caserme e posti di controllo. Calpestata dagli alti comandi che hanno fatto del Chang Thang, l'altipiano desertico settentrionale, una pattumiera di scorie nucleari. L'oppressione non è uguale in tutto il Paese, si sente più forte soprattutto a Lhasa, molto meno hi periferia. In un monastero che non nominiamo abbiamo visto una recente foto del Dalai Lama su un altare, roba proibita dalla legge e impossibile nella capitale. Qui i ritratti del premio Nobel circolano, ma vengono nascosti nei posti più impensabili. Nonostante 50} anni di forsennata repressione, il Dalai Lama resta nel cuore dei tibetani, anche dei non buddhisti, il simbolo politico-religioso della nazione. Ma anche il governo in esilio di Dharamsala ha i suoi problemi, soprattutto la difficile mediazione tra le varie componenti della diaspora tibetana: la gente del centro, quelli del Kham e dell'Amdo. Gran parte di queste due aree cominciarono a essere incorporate nella Cina dall'inizio del secolo. Riconquistate dai maoisti nel '49, dopo il crollo dell'impero e la guerra civile, sono ora province cinesi. E' per questo che chiedendo la restituzione del Tibet, il Dalai Lama non chiede i confini del Paese che abbandonò nel '59 (che corrispondono più o meno a quelli dell'attuale Ragione Autonoma) ma quelli che comprenderebbero parte delle vicine province cinesi: Qinghai, Sichuan, Gansu e Yunnan. E' facile immaginare che su queste basi una soluzione del nodo tibetano non è alle porte. Si aprpno invece le porte ai pelle¬ grini di Tsurpu: i cinesi escono come da mia visita allo zoo, sul naso dei tibetani a cui anni di dissimulazione hanno insegnato a nascondere il risentimento, almeno finché è possibile. Ai cinesi è stata concessa un'udienza di quasi mezz'ora, i fedeli verranno fatti passare a mitraglia davanti al piccolo santo che spesso non li degnerà di un'occhiata: immobile, con l'aria quasi annoiata, lo sguardo lontano. Ma poi, capita che a qualcuno dispensi il suo ammaliante sorriso, e allora per un attimo sale una gioia repentina che ricorda come anche il Tibet occupato dai cinesi sia soltanto un fantasma della mente e dietro al palcoscenico dei sensi ci sia per tutti una dolcissima pace. Ma appena usciti dalla sala delle udienze, i cartelli in cinese rammentano ai pellegrini di essere tornati nel loro inferno quotidiano, dove nessuno sfugge alla legge della sofferenza, neppure gli odiati cinesi. CJaudio Gallo U Al monastero di Tsurpu una folla sbrindellata è in coda. Un gruppo di Han entra superando tutti, e il divino ragazzo li copre di sorrisi Qui accanto il monastero di Tsurpu sede della setta karmapa A destra il XVII Karmapa U-rgyan vphrin-las