Anche le storpiature servono a capirsi. Senza note fra i banchi

Anche le storpiature servono a capirsi. Senza note fra i banchi lettere AL GIORNALE Anche le storpiature servono a capirsi. Senza note fra i banchi Il francese dei telecronisti Vorrei rispondere alla lettera del Signor Fai pubblicata sulla Stampa del 23 giugno in merito alla pronuncia della lingua francese da parte dei cronisti inviati ai Mondiali di Francia '98, i quali, proprio perché «inviati», dovrebbero essere padroni della lingua di quel Paese. Anch'io rabbrividisco nell'udire lo scempio che si fa della fonetica francese, che ha delle regole ferree, al contrario della lingua d'Albione, e le cui eccezioni sono pochissime. Tra queste ad esempio le «x» di Bruxelles, Auxerres, soixante e derivate, che dovrebbero suonare come una doppia «ss» e che invece con pervicacia incredibile sono pronunciate come «x». Purtroppo la città di Senlis è un'altra di queste eccezioni, non per il suono nasale «en», bensì per la «s» finale che va pronunciata, nonostante la regoletta della parola «deposito» + x + z, e che tra quelle di fonetica è forse la più disattesa. Vorrei ancora aggiungere che proprio i nomi geografici sono quelli che non sempre seguono le regole. Neppure l'uso ci è di aiuto perché a volte gli stessi francesi, generalmente di bassa cultura, hanno una pronuncia scorretta. Questo avviene a tutte le latitudini, compresa la nostra. Di esempi se ne potrebbero fare moltissimi, anche ad alti livelli. La scuola insegna poco e male la lingua italiana, i media fanno il resto, uniformando la lingua al romanesco più becero. Il villaggio globale fa sì che si usino, specialmente in Italia, neologismi e parole di provenienza straniera, a volte utili, per evitare perifrasi, a volte inutili. Nel criticare i giornalisti, che dovrebbero essere stati assunti anche per la conoscenza di almeno due lingue straniere (forse il thailandese e il coreano?), il Signor Fai mi trova perfettamente d'accordo. Sono gli stessi che massacrano la lingua italiana. Però mi permetta di aggiungere che è molto difficile in un contesto italiano pronunciare correttamente parole di qualsiasi lingua straniera senza storpiarle almeno un po'. Ciò è valido anche nell'opposta direzione. Gli «stranieri» ci fanno la grazia di capirci ugualmente e noi ci proviamo con loro senza «farci le pulci». Non si arrabbi e cerchi di vivere in pace in questo villaggio globale di un'Europa appena nata e che certamente non si fermerà davanti a dei puristi. Se le storpiature serviranno a capirci meglio, ben vengano! Gabriella Donisotti Possano (Cn) L'inglese dell'on. Martino Che gli italiani non abbiano mai avuto una grande dimestichezza con la lingua di Shakespeare è noto. E la classe politica, specchio fedele del paese, pare ci tenga confermarlo. Leggo sulla Stampa una «poesia» di Antonio Martino contro Prodi. E' singolare come l'ex ministro degli Esteri si lanci in spericolate e non richieste scorribande nei territori di una lingua, che, per la posizione che occupava fino a qualche tempo fa, potrebbe dare prova di conoscere meglio. All'ultimo verso del suo divertissement si può leggere: «I wish he go away». Ora non credo che sia necessario essere un docente di anglistica per preferire quanto meno la forma «goes» alla terza persona singolare del presente indicativo. Ma, si dirà, potrebbe trattarsi di refuso, o - perché no ? - di licenza poetica. E sia. L'ipotesi è però meno probabile se si vuole giustificare la scelta del «simple present», inammissibile dopo il verbo «wish», dopo il quale si richiede sempre il passato semplice con valore di congiuntivo. La frase dovrebbe quindi suonare «I wish he went away». Ci si chiede da dove nasca questo incauto, ma irrefrenabile bisogno di figuracce. Massimo CabeUi, Sorengo (Ch) max.fior@ticino.com Perché non c'è musica al liceo Mi riferisco alla lettera della ragazza Alessandra Maggiora che, conseguito il compimento della scuola media, ha - con amara sorpresa - constatato che nei licei non è «previsto un corso di musica». Posto che l'attività musicale - che dovrebbe essere praticata anche a livello di liceo - costituisce un mezzo efficacissimo per la crescita spirituale degli allievi, si dovrebbe ritenere indiscutibile la presa di coscienza dello Stato di questa veramente inconcepibile mancanza di valorizzazione educativa. Perché non c'è dubbio che la musica, mi sembra di poter affermare, si configura pure come uno dei più grandi domìni del patrimonio culturale dell'umanità: il fatto musicale risponde alle caratteristiche di fondo dell'uomo, alla sua natura (perché il ritmo è in natura). Nella musica, dico, l'umanità ha espresso il suo animo, i suoi ideali di vita, le più profonde passioni che hanno determinato la sua storia. Ed è chiaro, allora, che, se educare l'uomo significa inserirlo nel patrimonio ideale dell'umanità, non è possibile una sua compiuta educazione senza farlo partecipe anche di questo dominio. Purtroppo non si può dire che la stessa pedagogia moderna abbia inteso a fondo il valore dell'educazione musicale. Io penso che forse il pragmatismo e l'utilitarismo di certa moderna pedagogia e anche dell'opinione pubblica, che vede nella scuola lo strumento per un inserimento nel mondo del lavoro, hanno portato alla scarsa valorizzazione dell'educazione musicale ignorando che è perfettamente consona allo spirito di tutto quel movimento rinnovatore della scuola (e della pedagogia) che si è sviluppato tra la fine del secolo scorso e i giorni attuali. Giulio Lunardi, Torino La Sindone e la volontà di Dio A proposito delle contrastanti valutazioni sull'autenticità della Sindone, il sig. Damiani {La Stampa del 21/5) accusa di assoluta debolezza le argomentazioni del sig. Formica, il quale nega che il sacro lenzuolo sia autentico perché se lo fosse «obbligherebbe» a credere. A parte il fatto che certamente milioni di buoni cristiani sarebbero felici di avere di fronte qualche fatto così incontestabile che li obbliga a credere (e qui naturalmente qualcuno obietterà che allora non si tratterebbe più di fede, ma il discorso si complica) l'obiezione mossa dal sig. Damiani, secondo cui non è possibile che Dio abbia lasciato ingannare così il suo popolo, è altrettanto debole. Infatti, e chiedo di parlare perché come superstite di Oswecim (Auschwitz) sono una delle poche persone ancora viventi che possono e, credo, devono dire qualcosa, con la stessa logica (che poi è quella di H. Jonas, che pubblicò Il concetto di Dio dopo Auschwitz e di Zvi Kolitz autore di Yossl Rakover si rivolge a Dio) potrei dire: possibile che Iddio abbia permesso la spaventosa eliminazione di sei milioni di mie sorelle e fratelli? F. Egarel Levi Torre Garofoli (Al) La battaglia degli armeni In merito al servizio da Parigi «Battaglia fra turchi e armeni agli Invalides», a firma di Enrico Molinari, pubblicato il 21 giugno, riguardante l'attacco subito dal corteo dei turchi da parte di un gruppo di armeni armati di manganelli, spranghe di ferro e pugnali, precisiamo che nessun giornale francese ha fatto riferimento agli armeni, che la stampa turca di Istanbul ha riportato che si trattava in realtà di un gruppo di curdi dei Pkk, che la polizia francese non ha fornito indicazioni circa l'identità degli aggressori. Pietro Kuciukian Milano direzione Unione Armeni d'Italia Le lettere j£ .vanno inviate.:> V a: V *LA STAMPA\ ! 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