ISRAELE

ISRAELE Perché nella comunità sefardita, più debole e arretrata, perdura l'ostilità contro i laboristi? L'analisi di Yehoshua ISRAELE SLil peccato originale élla sinistra TEL AVIV. «Ammettiamolo: non abbiamo saputo apprezzare il contributo degli ebrei originari dei Paesi arabi e pertanto chiediamo perdono»: così il 28 settembre 1997 Ehud Barak, leader del partito laburista Avodà (il vecchio Mapai) ha aperto il congresso del suo partito a Netivot, cittadina sperduta nel Neghev considerata roccaforte del Likud e la cui ricchezza principale deriva dal culto popolare di un rabbino marocchino morto in odore di santità. Ignorando la aperta disapprovazione di Shimon Peres, Barak ha così tentato di ricucire lo strappo fra il suo partito e le masse sefardite immigrate negli Anni 50, il cui sostegno è necessario ai laburisti per superare il Likud. Ma gli ebrei orientali trovano ancora imperdonabile il tentativo di David Ben Gurion di forgiare in Israele un «uomo nuovo», di inclinazione socialista, distruggendo inesorabilmente il loro patrimonio culturale, religioso e sociale bollato dai laburisti come «primitivo e reazionario». E' quanto spiega lo scrittore Avraham Yehoshua nell'articolo che pubblichiamo in questa pagina. [a. b.] EA richiesta di perdono rivolta da Ehud Barak alla comunità sefardita nel corso del congresso del partito laborista a Netivot ha suscitato reazioni burrascose da parte del pubblico israeliano. Reazioni in gran parte negative, se non addirittura furenti, a giudicare da articoli, interviste, lettere ai giornali. Ma il fatto che queste reazioni negative siano giunte da ambienti diversi, e persino ostili gli uni agli altri, come, per esempio, da veterani del Mapai e da vecchi membri della comunità sefardita, da rappresentanti del Likud e da giornalisti moderati di sinistra, da rispettati professori universitari affiliati al partito laborista e da circoli di intellettuali post-sionisti di origine sefardita, mi ha spinto a pensare che le radici dell'opposizione alla richiesta di scuse di Ehud Barak non affondino solo nel dibattito politico in sé, bensì scuotano anche alcune fondamenta della storia e dell'identità israeliana. All'apparenza nella cultura ebraica esiste un chiaro insieme di valori che esaltano il perdono e particolari riti religiosi esortano i fedeli a praticarlo. Nel calendario ebraico un intero mese è consacrato alle suppliche per il perdono, un mese intenso di preghiere che celebrano questa virtù. Di fatto, nella realtà israeliana (anche fra i religiosi), di tutto questo non rimane che qualche simpatica leggenda popolare a proposito di uomini giusti e pii che non provano alcuna vergogna nello scusarsi anche dinanzi ai semplici. Ma la società israeliana, com'è noto, non è formata da santi bensì da persone che hanno sempre ragione e che mai, qualora sbagliassero, prenderebbero in considerazione l'idea di chiedere scusa. Ancora non è possibile dimenticare la grande sfrontatezza con la quale Golda Meir e Moshe Dayan si ostinarono a negare qualsiasi responsabilità per il disastro della guerra dello Yom Kippur, rifiutandosi di pronunciare le semplici parole: «Scusateci, abbiamo sbagliato». Menahem Begin sentì chiaramente la responsabilità per la guerra maledetta che aveva scatenato in Libano. Si ciimise dalla carica di capo del governo e si rinchiuse in casa per punizione senza tuttavia esser capace di venire dinanzi a quel pubblico al quale tanto amava tenere discorsi pieni di pathos per dire semplicemente: «Sì, ho sbagliato e mi sono lasciato ingannare. Vi chiedo scusa per una guerra inutile e fallimentare». Una richiesta di scusa nel contesto della vita pubblica israeliana viene interpretata come un grave segno di debolezza (e non di forza quale dovrebbe essere), soprattutto agli occhi del nemico che potrebbe sfruttare questa debolezza a suo vantaggio. Il rifiuto di chiedere scusa trova origine nella sensazione che le pecche e gli errori non vengano mai commessi in maniera premeditata o con secondi fini ma siano dovuti piuttosto a scarsa informazione o a negligenza. In realtà la stragrande maggioranza dei fallimenti avviene a causa di ignoranza, superficialità, eccessivo senso di sicurezza e indifferenza per la sofferenza del prossimo. La richiesta di perdono non deve essere considerata come una confessione punita con la dannazione eterna bensì come l'ammissione di un errore e un'espressione di rammarico per la sofferenza del prossimo. «Venga perdonato chi ammette la propria colpa e si pente». Queste semplici parole di una preghiera ebraica riassumono egregiamente il processo etico dell'ammissione di colpa. Vi è in esse una promessa di riconciliazione, un atto di purificazione. Gli inglesi anelano a pronunciare più volte al giorno la frase «I am sorry» così che la sera possano sentirsi più forti e migliori mentre qui, da noi, se qualcuno pronuncia la parola «scusa» si sente come se gli fosse stato impresso il marchio di Caino. Ehud Barak ha affrontato il prò blema dell'umiliante sconfitta del governo laborista alle ultime eie zioni - un governo che molti ritengono sia stato uno dei migliori nella storia di Israele - mettendo il dito su una piaga dolorosa. Se l'ha fatto nella maniera giusta o meno questo verrà esaminato in seguito ma prima di tutto occorre respingere l'as surdo tentativo di creare false Uste di oltraggiati, che non esistono se non nella fantasia dei giornalisti Esiste, invece, un problema politico autentico, connesso alla sensazione di offesa degli ebrei sefarditi, ed è questo che occorre affrontare. Grosso modo è possibile dividere gli ebrei giunti nella Terra d'Israele dall'inizio del sionismo in due gnrp pi. Il primo, più numeroso, è costi tuito da ebrei arrivati in seguito a circostanze avverse e quindi per necessità: scampati dall'antisemiti smo e dall'Olocausto, profughi dagli Stati arabi in lotta contro Israele come Iraq, Egitto, Yemen, rifugiati dei regimi totalitari dell'Europa dell'Est e dell'Urss. A questi si potrebbero aggiungere i fuggiaschi dalla fame e dalla guerra civile in Etiopia. Il secondo gruppo, molto meno numeroso, è costituito da ebrei arrivati per libera scelta: im¬ migrati dagli Stati dell'Europa occidentale, dagli Stati Uniti, Sud America, Australia e dall'odierna Comunità degli Stati Indipendenti. Questi due motivi - necessità o scelta -, per quanto antitetici, hanno creato a mio avviso le condizioni grazie alle quali si è realizzato con relativa facilità l'immane processo (tuttora in atto) di integrazione delle varie ondate di immigrazione nel tessuto sociale israeliano. Chi arriva in Israele per necessità può avere di che recriminare ma in cuor suo sa bene che lo Stato ebraico lo ha salvato da un duro destino. Chi viene per libera scelta, malgrado le eventuali difficoltà, sa benissimo che non può riversare su altri la responsabilità della propria scelta. Esiste però, a mio avviso, un terzo gruppo, che non appartiene a nessuna delle due precedenti categorie. Un gruppo a tutt'oggi smarrito, disorientato, ancora incapace di assimilarsi nel tessuto sociale israeliano. Sono questi gli ebrei del Maghreb, giunti in Israele dopo il 1948 e in particolare quelli originari del Marocco. A tutt'oggi questi ebrei non sanno se da un punto di vista storico la loro immigrazione sia avvenuta per necessità o per scelta. Gli ebrei iracheni sanno bene che Israele, malgrado tutte le sue lacune, ha permesso loro di sfuggire alla crudele prigionia di una dittatura araba assetata di sangue. Viceversa gli ebrei del Marocco hanno sempre mantenuto un certo grado di identificazione con la loro madrepatria considerandosi tutelati dal regime e dal re la cui immagine fa spesso bella mostra di sé in molte case di israeliani di origine marocchina. Tuttavia, malgrado l'affetto per il Marocco, il senso di benessere e di relativa sicurezza che vi sentivano in passato, e benché un vivo desiderio messianico di ritorno a Zion abbia sempre palpitato nel loro cuore, gli ebrei marocchini non sono in grado di affermare con certezza che la loro immigrazione in Israele fu il risultato di una libera scelta, come nel caso degli ebrei occidentali. Questa ambiguità crea nella comunità, a tutt'oggi, un atteggiamento ambivalente e doloroso verso la loro immigrazione che si riflette a mio avviso nei rapporti con il sistema governativo che li accolse negli Anni 50: un misto di rassegnazione, rabbia, nostalgia per la loro precedente identità. Da tutte le analisi sociologiche riguardanti gli immigrati dal NordAfrica emerge con chiarezza che il senso di offesa e di rabbia nei confronti del partito laborista ha un'origine puramente emotiva. Infatti, se tutto si riportasse esclusivamente a una discriminazione di tipo economico e sociale, la protesta avrebbe dovuto esplodere anche contro il Likud, che ha governato il Paese durante gli ultimi vent'anni ampliando, sotto molti aspetti, il divario economico tra le classi sociali più deboli, costituite per lo più da sefarditi, e quelle più abbienti. Ma poiché la rabbia è rivolta esclusivamente verso il partito laborista, è plausibile ritenere che il motivo sia legato a un unico «peccato originale» e non a una serie di peccati. Ma qual è questa ingiustizia commessa dal partito laborista nei confronti degli immigrati sefarditi e soprattutto di quelli dal Nord-Africa? Nessuno infatti può negare lo sforzo enonne compiuto dai vertici del piccolo Stato per accogliere questi immigranti (che arrivavano alla media di mille persone al giorno) in condizioni economiche e di difesa tanto difficili. Ritengo che la radice della questione affondi in una concezione ideologica di base della sinistra, vale a dire la convinzione della capacità dell'uomo di cambiare, di liberarsi di vecchie culture, tradizioni e costumi aviti par trasformarsi in qualcosa di nuovo. La pretesa rivolta agli immigrati dal Maghreb di trasformarsi in ebrei di una nuova sorta pareva agli occhi dei governanti laboristi moralmente legittima in quanto loro stessi avevano attuato quel cambiamento che ora esigevano da altri. Anche gli immigrati dall'Est Europa si erano scrollati di dosso la diaspora, rinnegando l'yiddish e voltando le spJle alle fedi e alle usanze dei padri. Ma si trattava davvero di un cambiamento? All'apparenza sì. Il nuovo ebreo avrebbe dovuto differire da quello della diaspora nel modo di vivere e nella mentalità, nel rapporto con la tradizione ebraica, nel modo in cui assumeva responsabilità per la propria sicurezza e per quella di chi gli stava attorno, nel suo pensiero sociale, ecc. Inoltre, quello che ora Ben Gurion e compagni pretendevano dagli ebrei sefarditi era già stato realizzato da loro in prima persona. Ma, e qui sta la grande differenza, nessuno degli ebrei ashkenaziti giunti in Israele aveva mai preso in considerazione l'idea che la trasformazione da vecchio ebreo della diaspora in nuovo ebreo israeliano dovesse implicare anche un cambiamento della propria cultura. Tuttavia dagli ebrei sefarditi e soprattutto da quelli marocchini il governo socialista di allora pretese un doppio sforzo: non solo rinnegare la diaspora per trasformarsi in nuovi ebrei ma rinunciare anche alla propria cultura orientale per accettarne un'altra, in quanto nessuno aveva dubbi che l'infrastruttura culturale dello Stato d'Israele avrebbe dovuto essere di stampo occidentale. E questo non solo perché la cultura occidentale era considerata più ricca, forte, articolata e progre- dita di quella orientale e costituiva una base salda per un adeguato sviluppo tecnologico, ma anche perché la stragrande maggioranza del popolo ebraico, senza dubbio prima dell'Olocausto ma anche dopo, ne faceva parte. Purtroppo, però, gran parte della popolazione ebraica ashkenazita in seno alla quale era nato il sionismo non arrivò in Israele. Sulle prime molti ebrei dell'Europa orientale e occidentale si rifiutarono di abbracciarne la dottrina e anche dopo la dichiarazione di Balfour, quando fu concesso agli ebrei di emigrare nella terra di Israele, la maggior parte di loro preferì rimanere in Europa o emigrare in America. In seguito gli ebrei europei caddero vittime della tragedia dell'Olocausto o rimasero intrappolati dietro la cortina di ferro dell'Unione Sovietica, così che nello Stato di Israele sorto dopo la Shoah venne a crearsi un equilibrio numerico tri ebrei sefarditi e ashkenaziti. Ciononostante non sembrava che la società israeliana che accoglieva i nuovi immigrati sefarditi avesse compreso la necessità di creare un ambito culturale che comprendesse elementi sia orientali che occidentali. Gli ebrei giunti dai Paesi orientali dovettero non solo trasformarsi, come tutti, in «ebrei nuovi» ma anche «occidentalizzarsi». Se dovessi definire in una frase il segreto del fascino che Menahem Begin esercitava sugli ebrei sefardi ti direi semplicemente che non esi geva da loro alcun cambiamento, accettandoli per quello che erano Fondamentalmente questa è una posizione reazionaria, pessimista ma Begin non pretese cambiamen- ti, né da sé né da altri. Agli ebrei di origine sefardita disse semplicemente: «Io sono un vecchio ebreo polacco e mi sta bene così. Voi siete ebrei sefarditi e a voi sta bene così. Io, da voi, non mi aspetto niente». Il cambiamento preteso dalle comunità degli ebrei sefarditi non solo era infinitamente più grande di quello degli ebrei ashkenaziti ma la società ashkenazita che aveva accolto i nuovi immigrati non era nemmeno disposta a pagare il prezzo esorbitante di ima tale imposizione. In altre parole, non era disposta a recarsi a Dimona, Netivot, Ofakim, Shlomi o Kiryat Shmone per far conoscere la musica di Schubert, Mahler e Shostakovich. La musica delle comunità sefardite venne così loro sottratta senza proporne un'altra in alternativa. Sul giornale «Yedyot Aheronot» è apparsa recentemente una serie di articoli estremamente interessanti e istruttivi a cura di Assafa Peled incentrati sulla storia della musica orientale in Israele. La giornalista ha descritto in maniera dettagliata la lotta dura e frustrante condotta da musicisti sefarditi affinché la musica orientale trovasse una propria, legittima collocazione nel panorama culturale israeliano. La musica è il mezzo di espressione di norme culturali, di sentimenti profondi, dell'appartenenza dell'uomo a un determinato collettivo che ne definisce l'identità. Nei momenti di difficoltà c'è chi cerca innanzitutto consolazione nella musica, dove ritrova gli orizzonti sconfinati nei quali poter disperdere il proprio dolore e riscoprire l'eco del ritmo e delle melodie nostalgiche dalle quali attingere nuove forze. Malgrado io stesso mi consideri estraneo alla musica orientale e preferisca quella occidentale, ritengo che da un punto di vista etico sia necessario che le espressioni della cultura orientale conquistino il loro meritato spazio nel panorama culturale israeliano. L'indifferenza degli ebrei europei verso il sionismo e 2 loro rifiuto ad accettarlo hanno trasformato gli ebrei sefarditi, la cui incidenza demografica nella popolazione ebraica era irrilevante (solo l'otto per cento alla vigilia dell'Olocausto), in un partner di pari grado dopo la fondazione dello Stato di Israele. La cultura orientale (malgrado i problemi e le debolezze) merita dunque di essere annoverata a pieno titolo e con uguali diritti in quella israeliana quale interlocutrice legittima della cultura occidentale. Tanto più che con l'arrivo della pace il dibattito concernente gli elementi dell'identità orientale nella cultura israeliana non sarà più solo interno ma anche esterno e si estenderà ai nostri ex nemici divenuti nuovi vicini. Il partito laborista che ha sottratto la musica alle comunità degli ebrei sefarditi deve chiedere scusa. L'intento di una loro rapida occidentalizzazione, che avrebbe potuto anche ritenersi giustificato e necessario secondo la logica dei tempi e le circostanze, non avrebbe dovuto tuttavia ignorare la loro cultura e cancellarla senza prima compiere grandi sforzi per convincere i suoi portatori ad accettare liberamente anche un diverso tipo di musica. Questo sforzo avrebbe prodotto un dialogo proficuo tra le due culture. La richiesta di perdono di Ehud Barak è dunque giustificata. Io credo che quegli ebrei sefarditi che capiranno dove ha origine questa richiesta e a cosa miri la accoglieranno, con grande dispiacere di giornalisti cinici e di intellettuali sprezzanti. E chissà che non potremo attenderci una scelta politica degli ebrei sefarditi basata non solo sui peccati del passato ma anche su un sogno futuro. Avraham B. Yehoshua L'ideologia progressista di Ben Gurion e dei suoi successori, nel perseguire la creazione dell '«ebreo nuovo», ha imposto l'occidentalizzazione anche agli immigrati di cultura onentale In una bufera di critiche Barak ha chiesto scusa Qui sopra Avraham B. Yehoshua in alto Ehud Barak, leader del partito laborista israeliano A destra un'immagine della città vecchia a Gerusalemme LdslnladIBtompeImlqscnzzsp _______________