CHE FESTA! di Bruno Gambarotta

CHE FESTA! CHE FESTA! NEGLI Anni 50, quando sono sbarcato a Torino dalla provincia, l'estate in città era da suicidio. Alla sera potevi mangiare una fetta d'anguria, oppure sederti in un bar, ordinare un chinotto o una cedrata e guardare da lontano le immagini lattiginose di un televisore in bianco e nero issato sopra un alto trabiccolo. Se proprio volevi fare una follia, avevi a disposizione un ciclo di vecchi film gialli che cambiavano ogni giorno, proiettati nell'illusione che i brividi di terrore attenuassero nello spettatore gli effetti dell'afa. In quegli anni i pubblici amministratori non si preoccupavano di organizzare il tempo libero dei loro elettori. Questa premessa per dire che adesso l'estate in città mi sembra un sogno. Ho avuto modo di sperimentare le «Sere d'estate» sia stando in platea in mezzo al pubblico che sul palco. In entrambi i casi mi sono trovato come un topo nel formaggio. Come pubblico, sei nella felice disposizione che viene dal trovarsi in tanti nelle medesime condizioni e dal sentirsi, perché no?, un filino più furbi di quelli che sono corsi ad accalcarsi e a farsi spennare su spiagge superaffollate. Certe sere felici ti vie¬ ni a trovare dentro una nebulosa di amici e di semplici conoscenti; i gruppi incrociandosi si sfaldano e si riformano e spesso ritorni a casa accompagnandoti con persone diverse da quelle con cui avevi cominciato a navigare nella notte. C'è in giro una rilassata disponibilità a farsi piacere tutto, anche le nenie sempre uguali suonate per tre ore dal celebre com- plesso di arpe celtiche, o i percussionisti del Togo, o i balletti che vogliono raccontare la storia del tango. Chiedo scusa agli organizzatori che si sbattono per far arrivare a Torino artisti bravi o famosi ma, secondo me, non ha molta importanza chi si esibisce perché ai «Giorni d'Estate» il vero spettacolo lo fa il pubblico che si mette in scena come una colletti¬ vità che si ritrova intrecciando mille fili di appartenenza, smentendo le tetre profezie di coloro che ci vorrebbero incollati a un monitor a scambiare messaggi incorporei con amici virtuali. Se invece sei sul palco per raccontare quattro scemenze, dalla platea ti arrivano ondate di complicità e di incoraggiamento. Basta poco per farli ridere; l'aereo che passa nel cielo, il motorino che scoppietta, l'altoparlante che chiama qualcuno, tutto entra a far da cornice nello spettacolo. I rintocchi di un campanile che batte undici colpi e subito dopo li ripete sono una manna per il cabarettista in vena di improvvisazione. Una sera Mario Zucca ha dialogato per quaranta minuti con i rombi di tuono in avvicinamento che minacciavano un temporale. Una vera benedizione poi sono lo spettatore che ride sfasato perché ha capito in ritardo una battuta e il bambino innocente che pronuncia a voce alta una frase qualsiasi. Che la festa cominci. Basta poco per sentirsi vivi. Bruno Gambarotta Il vero spettacolo lo fa il pubblico che si mette in scena come una collettività che intrecci mille fili di appartenenza

Persone citate: Mario Zucca

Luoghi citati: Togo, Torino