Ciprì & Maresco entrano al Museo
Ciprì & Maresco entrano al Museo Ciprì & Maresco entrano al Museo E I pensare che, a inizio carriera, Daniele Cipri e I Franco Maresco erano stati inseriti da qualche critico un po' sprovveduto come i possibili «nuovi comici» per il cinema italiano: vista con gli occhi di oggi è una collocazione veramente sorprendente, solo in parte giustificata dal fatto che i due registi siciliani devono la loro prima notorietà al fatto che la loro serie «Cinico Tv» aveva occupato su Raitre la fascia di palinsesto generalmente occupata a quei tempi da Piero Chiambretti. Chi invece frequentava le manifestazioni dedicate al cinema indipendente italiano si era subito accorto che Cipri e Maresco proponevano un cinema completamente diverso da quello dei loro coetanei: storie in cui il senso del paradosso arrivava direttamente da Samuel Beckett e non dal nuovo cabaret televisivo, in cui i tempi di narrazione erano scanditi con precisione assolutamente cinematografica, in cui l'uso delle luci e del bianco e nero costituiva un surplus di senso che poteva suscitare amore o rifiuto ma certamente non poteva lasciare indifferenti. Dalla palestra dei festival indipendenti alla realizzazione di un lungometraggio il passo non è stato tutto sommato difficile, anche perché ai loro lavori si è subito interessato uno dei pochi produttori intelligenti e curiosi del cinema italiano, e cioè Galliano Juso; i problemi paradossalmente sono arrivati subito dopo la realizzazione del loro primo lungometraggio, intitolato «Lo zio di Brooklyn» e interpretato da buona parte dei volti resi noti proprio dalla striscia televisiva «Cinico Tv». Cipri e Maresco, infatti, propongono il film al festival di Venezia ma la capacità d'impatto del loro lavoro lascia perplessi i selezionatori che propongono loro una collocazione fuori concorso. I due rifiutano e aprono una dura polemica contro la piattezza dela critica cinematografica italiana: una polemica che attira contro di loro gli strali di gran parte dei critici italiani (con poche, significative eccezioni: Enrico Ghezzi, Goffredo Fofi, Gianni Rondolino...) che li definiscono «banali» o «volgari» o anche «disgustosi»... Niente di più falso, natural¬ mente, visto che il cinema di Cipri e Maresco è forse il più lucido nel descrivere un mondo in cui la religiosità è veramente l'unica risorsa per sopravvivere, anche se traspare in modo provocatorio, irriverente, sarcastico. E in questa chiave va letto il loro capolavoro, «Totò che visse due volte», presentato al festival di Berlino e subito grande oggetto di scandalo, al punto di diventare il primo film dopo tanti anni sul quale si è abbattuto il divieto preventivo da parte della censura. «Totò che visse due volte» è in qualche modo un superamento delle loro esperienze televisive e cinematografiche precedenti, un punto di svolta: è un film di- sperato, su un'umanità che non ha più futuro e che vive in un degrado cosmico, proprio nei termini proposti anni fa da un altro grande incompreso, Pier Paolo Pasolini. La loro personale, in programma al cinema Massimo (sala Tre, biglietti d'ingresso a 7 mila lire) da mercoledì 24 a lunedì 29 giugno su iniziativa del Museo Nazionale del Cinema, è assolutamente da non perdere: a meno che non ci si voglia prestare al facile (e qualunquista) gioco di chi dice che il loro è un cinema d'elite, che non sa capire il popolo, mentre è davvero esattamente il contrario. Stefano Della Casa Ciprì & Maresco entrano al Museo Una scena delfilm «Lo Zio di Brooklyn» di Cipri e Maresco
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