Lo spazio del leone

Lo spazio del leone COME SARA7 LO ZOO PEL FUTURO? Lo spazio del leone Ecosistemi artificiali a San Diego e Montreal QUALE sarà lo zoo del futuro? Ce lo domandiamo un po' tutti dopo la crisi profonda che ha investito negli ultimi tempi i giardini zoologici tradizionali. Li si considera un'istituzione anacronistica, superata. Fino all'età moderna le uniche collezioni di animali furono quelle private di re e imperatori. Gli zoo conoscono la loro epoca d'oro nel secolo scorso e agli inizi di questo secolo, quando sorgono quelli delle principali città d'Europa e d'America. Sono una novità che attira il pubblico in tempi in cui quasi nessuno viaggia, quasi nessuno ha occasione di vedere in carne e ossa giraffe, elefanti o rinoceronti. Ma, con il diffondersi dei documentari e dei libri di divulgazione che mostrano una ben diversa realtà, gli zoo entrano in crisi. Un po' alla volta, la nostra concezione degli animali cambia. Ci si rende conto che vedere un animale prigioniero in una gabbia è come vedere un uomo condannato all'ergastolo, in cella di isolamento. Cosa ha in comune il leone che giace apatico e impotente in una gabbia angusta, con il fiero felino fulvo che cammina furtivo nell'erba alta della savana dando la caccia al branco di antilopi? Oppure il gorilla nevrotico che agita ritmicamente la testa sbattendola contro le pareti della gabbia, con il suo compagno di specie che vive libero sulle pendici dei monti Virunga, in mezzo a un'allegra tribù di femmine e di giovani? Il mondo è cambiato. C'è tanta gente che visita i parchi nazionali, che può osservare da vicino gli animali nella libertà della natura. E chi non ha la possibilità di viaggiare, può starsene seduto in poltrona ad ammirare gli splendidi documentari girati nelle foreste dell'Amazzonia, nelle savane africane o nei mari corallini. Gli etologi hanno scoperto final mente l'immagine vera di que sti nostri straordinari compagni di vita sul pianeta. Sappiamo ora che comunicano tra loro in mille modi diversi, che hanno escogitato infiniti stratagemmi per sopravvivere, che amano il gioco, che curano i piccoli, che provano sofferenza e dolore, che sanno usare strumenti e perfino trasmettere cultura. Bando quindi agli spazi angusti, alle gabbie e alle sbarre che rendono gh zoo vecchia maniera simili ai lager. I confini adottati dagli zoo moderni sono fossati e pannelli di vetro. Ma non è stato facile abituare gh animali alle nuove condizioni di vita. Mohini, la tigre dello Smithsonian National Zoo, immessa in un vasto territorio erboso e alberato, ha continuato per parecchi mesi a coprire lo stesso tragitto limitato che era abituata a percorrere nella vecchia gabbia in cui era vissuta per anni. E un orso bianco, pur di- sponendo di una grande piscina in cui avrebbe potuto sguazzare a piacimento, si è limitato per un bel pezzo a nuotare in cerchio in una ristretta zona d'acqua corrispondente all'estensione della minuscola vasca in cui aveva nuotato per tanto tempo. La clausura in ambienti ristretti ha pesantemente condizionato il loro comportamento. Solo i giovani si abituano in tempi brevi al confort delle nuove residenze. Accettano le novità più facilmente degli adulti. Proprio co- me succede tra gli uomini. Quello che oggi ci preoccupa è soprattutto la sorte degli animali che in natura rischiano l'estinzione. E gli zoo riacquistano credibilità quando danno vita a centri di ricerca come quelli che affiancano ormai i principali zoo del mondo. I successi non sono mancati. L'orice d'Arabia, la stupenda antilope dalle lunghe corna sottili, sarebbe certamente scomparsa se alcuni esemplari allevati negli zoo di San Diego e di Phoenix non si fossero felicemente mol¬ tiplicati. Un boom demografico di proporzioni tali da permettere la reintroduzione della bella antilope nei paesi d'origine. Il cervo di Padre David, scoperto in Cina nel secolo scorso da un missionario francese, sarebbe certamente estinto se non fosse stato allevato negli zoo. Analoga sorte hanno avuto l'oca delle Hawaii e il bisonte europeo. Ma non sempre gh esemplari allevati in cattività possono ritornare ai paesi d'origine. Molte volte il loro habitat non esiste più, cancellato dalla deforestazione o dall'espansione demografica umana. E allora si cerca di riprodurre artificialmente l'ecosistema in cui vive la specie. Come si è fatto a Montreal, dove è sorto il Biodome, un grande complesso che ospita 4000 specie animali e 5000 specie di piante raggruppate in 4 diversi ecosistemi. Il Biodome di Montreal che occupa 7 kmq è un pigmeo di fronte all'immenso Parco degli animali selvatici di San Diego, in California, un'estensione immensa di circa 300 kmq, in cui si alternano zone aride e laghetti, giungle tropicali e savane, distese brulle e floride praterie. Ma è sufficiente tutto questo? Purtroppo no. Affiorano oggi altri motivi di preoccupazione per la sopravvivenza dei selvatici. L'antropizzazione allunga ogni giorno di più i suoi tentacoli, rendendo discontinuo l'habitat naturale di molte specie come la tigre o l'orango. Ci troviamo perciò di fronte a piccole popolazioni separate da autostrade, tenute agricole, zone abitate. Questo rende precaria la loro sopravvivenza. Bastano un cataclisma, un periodo di siccità o un'epidemia per decimarle. Si aggiunga il pericolo della consanguineità. Quando gli individui sono pochi, succede fatalmente che si incrocino tra loro soggetti consanguinei e si ha di conseguenza un impoverimento genetico. Ed è un inconveniente grave perché sono proprio le variazioni genetiche quelle che consentono l'adattamento ai mutamenti dell'ambiente. A maggior ragione il discorso vale per gli ospiti degli zoo, che formano sempre gruppi molto piccoli. Gli scienziati si stanno già occupando attivamente del problema. E hanno creato enormi archivi elettronici in cui sono raccolti i dati genetici di tutti gli animali delle specie in pericolo. In possesso di tali dati stabiliscono quali incroci siano più convenienti per garantire una maggiore varietà genetica. Così combinano i matrimoni, anche se lei si trova, poniamo, in Giappone e lui in Sud Africa. Vuol dire che lo sposo viene portato in aereo al domicilio della sposa o viceversa. La salvezza delle specie in pericolo è affidata dunque al vero protagonista del nostro tempo, il computer. Isabella Lattea Coffimann In California ricreati savane giungle e deserti in 300 km quadrati Ma alcune specie sarebbero estinte se non fossero state in gabbia prigioniero in una gabbia è come vedere un uomo condannato all'ergastolo, in cella di isolamento. Cosa ha in comune il leone che giace apatico e impotente in una gabbia angusta, con il fiero felino fulvo che cammina furtivo nell'erba alta della savana dando la caccia al branco di antilopi? Oppure il gorilla nevrotico che agita ritmicamente la testa sbattendola contro le pareti della gabbia, con il suo compagno di specie che vive libero sulle pendici dei monti Virunga, in mezzo a un'allegra tribù di femmine e di giovani? Il mondo è cambiato. C'è tanta gente che visita i parchi nazionali, che può osservare da vicino gli animali nella libertà della natura. E chi non ha la possibilità di viaggiare, può starsene seduto in poltrona ad ammirare gli splendidi documentari girati nelle foreste dell'Amazzonia, nelle savane africane o nei mari corallini. Gli etologi hanno scoperto final mente l'immagine vera di que za un impoverimento genetico. Ed è un inconveniente grave perché sono proprio le variazioni genetiche quelle che consentono l'adattamento ai mutamenti dell'ambiente. A maggior ragione il discorso vale per gli ospiti degli zoo, che formano sempre gruppi molto piccoli. Gli scienziati si stanno già occupando attivamente del problema. E hanno creato enormi archivi elettronici in cui sono raccolti i dati genetici di tutti gli animali delle specie in pericolo. In possesso di tali dati stabiliscono quali incroci siano più convenienti per garantire una maggiore varietà genetica. Così combinano i matrimoni, anche se lei si trova, poniamo, in Giappone e lui in Sud Africa. Vuol dire che lo sposo viene portato in aereo al domicilio della sposa o viceversa. La salvezza delle specie in pericolo è affidata dunque al vero protagonista del nostro tempo, il computer. Isabella Lattea Coffimann