L'errore musicale di Pitagora
L'errore musicale di Pitagora MATEMATICA E NOTE L'errore musicale di Pitagora A correggerlo fu il padre di Galileo Galilei IL mio articolo Pitagora: la matematica dell'armonia, uscito di recente in un'altra parte del giornale, ha suscitato (per fortuna!) alcune reazioni. Sorvolerò su certe opinioni integraliste, nonostante gli incitamenti alla discolpa avanzatimi nella lettera di o.d.b. del 30 maggio, e mi concentrerò invece sulla leggenda narrata da Giamblico. Almeno un lettore (Filippo Demonte-Barbera) ha notato che essa è falsa, e chiede di essere correttamente informato su martelli, corde e note: cosa che faccio con piacere qui, perché la storia è particolarmente interessante per il pubblico scientifico. La leggenda, per chi non la sapesse o l'avesse dimenticata, è la seguente. Un giorno Pitagora passò di fronte all'officina di un fabbro e si accorse che il suono dei martelli sulle incudini era a volte consonante, e a volte dissonante. Incuriosito, entrò nell'officina, si fece mostrare i martelli e scoprì che quelli che risuonavano in consonanza avevano un preciso rapporto di peso. Ad esempio, se uno dei martelli pesava il doppio dell'altro, essi producevano suoni distanti un'ottava. Se invece uno dei martelli pesava una volta e mezzo l'altro, essi producevano suoni distanti una quinta. Tornato a casa, Pitagora fece alcuni esperimenti con nervi di bue in tensione, per vedere se qualche regola analoga valesse per i suoni generati da strumenti a corda, quali la lira. Sorprendentemente, la regola era addirittura la stessa! Ad esempio, se una delle corde aveva lunghezza doppia dell'altra, esse producevano suoni distanti un'ottava. Se invece una delle corde era lunga una volta e mezzo l'altra, esse producevano suoni distanti ima quinta. La storia di Giamblico si può condensare, in termini moderni, dicendo che Pitagora aveva scoperto che la frequenza di un suono determinato da una corda in tensione è inversamente proporzionale alla lunghezza della corda, e direttamente proporzionale alla sua tensione. Queste due leggi dell'armonia pitagorica furono tramandate per secoli senza che nessuno si preoccupasse di verificare se fossero davvero corrette: l'esperimento l'aveva fatto Pitagora, e gli altri si fidavano. Il problema è che solo una delle due leggi è corretta, mentre l'altra è sbagliata! Il primo a rendersene conto sembra essere stato Vincenzo Galilei, padre di Galileo. Nel Discorso intorno alle opere di Gioseffo Zerlino, pubblicato nel 1589, egli notò che i suoi esperimenti mostravano che in realtà la frequenza di un suono determinato da una corda in tensione è inversamente proporzionale alla lunghezza della corda, ma è direttamente proporzionale alla radice della sua tensione. In altre parole, per raddoppiare la frequenza è vero che si deve dimezzare la lunghezza, ma è falso che basta raddoppiare la tensione: bisogna quadruplicarla! Ci si può scandalizzare che siano dovuti passare più di duemila anni prima che un errore tanto grossolano fosse scoperto, ma chi è senza peccato scagli la prima pietra: quanti hanno mai verificato direttamente le leggi scientifiche e gli esperimenti che i libri riportano? La storia, però, non finisce qui. Dopo aver pubblicato i suoi «Principia», Newton vi aggiunse alcuni commenti che rimasero inediti, e non furono pubblicati che in questo secolo. In uno di questi egli sostiene che Pitagora conosceva già la legge di gravitazione universale, o almeno il fatto che l'attrazione è inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Il ragionamento di Newton è duplice. Da un lato, Pitagora considerava il Sistema Solare come una lira a sette corde suonata da Apollo e producente la musica delle sfere: dunque, le leggi dell'armonia musicale dovevano essere le stesse di quelle astronomiche. Dall'altro lato, poichó la frequenza è inversamente proporzionale alla lunghezza ma direttamente proporzionale alla radice della tensione, la tensione è inversamente proporzionale al quadrato della lunghezza. Sostituendo tensione e lunghezza con gravitazione e distanza, il gioco è fatto. Attribuendo a Pitagora le leggi scoperte in realtà da Vincenzo Galilei, Newton commetteva però non un errore, ma un vero e proprio falso. Egli sapeva infatti benissimo quali fossero invece le leggi che gli antichi attribuivano a Pitagora, perché su di esse si basava un classico testo di Severino Boezio, di cui egli aveva scritto un commento all'età di 23 anni. Newton era dunque disposto a mentire, pur di poter attribuire agli antichi il credito della sua maggiore scoperta: bei tempi, quelli, in cui un pensatore poteva trovare maggior gloria riscoprendo una saggezza perduta, che non accampando originalità e rivendicando priorità! Piergiorgio Odifreddl Università di Torino qsso, permet se esistono zioni». Inol¬ ggGran Sasso nel 2002. ba ei ^grgn^gSv n^■"^^er^xN^è aastscccne di amre risocendioprova bordo, dell'orSole coalimente dei prapidamodulni cuifar frodei cene di Hoso a dimini e lo discooperaldilà La mto ancvo serha per4 tonntle al l Qui accanto, Pitagora In un'arpa è possibile verificare le leggi pitagoriche dell'armonia, solo in parte esatte, ma ritenute tali per molti secoli
Luoghi citati: Torino
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