ITALIANI IN AFRICA: IL NOSTRO FAR WEST di Oreste Del BuonoGiorgio Boatti

ITALIANI IN AFRICA: IL NOSTRO FAR WEST ITALIANI IN AFRICA: IL NOSTRO FAR WEST Due esploratori antagonisti: Antonelli e Franzoj Ldfife, ITALIA, a differenza di altri Paesi ha sempre avuto la frontiera sulla I soglia di casa. Frontiera, dunque, / come confine e limite. Concezione y ben diversa da quell'esperienza dalla «frontiera mobile» che altrove, ad esempio negli Stati Uniti, rappresenta uno degli elementi fondamen. tali del forgiarsi di una nuova co¬ munità territoriale. ì\ Il Far West, come ci hanno inse¬ gnato sia i westerns che i fumetti della nostra vita, si è sempre posto, infatti, non come ostacolo ma come sfida e presagio di un nuovo modo di vivere, singolarmente e collettivamente. Frontiera dunque come orizzonte da raggiungere e superare, itinerario che diventa, nel suo dispiegarsi, la meta stessa proprio perché consente - come spiega Frederick J. Turner in un classico della storiografia americana - di riplasmare esperienze individuah e destini collettivi. Stendendole, anzi, in un certo senso spalmandole, su territori immensi. senso spalmandole, su territori immensi. E noi italiani? Visto che i confini di casa sono troppo ridotti abbiamo cercato per generazioni la nostra frontiera altrove. Prevalentemente in quel nostro «Far West» che vicende varie hanno fatto sì che stesse al nostro Meridione e a Oriente: l'Africa Orientale. Nella penetrazione italiana in Eritrea, sul finire del secolo scorso, emergono figure che sarebbero davvero degne di figurare in un western, anzi in un «eastern» all'italiana. Personaggi, come il padre lazzarista Sapete promotore dell'acquisto italiano della base di Assab (vale a dire il primo approdo del neonato Regno d'Italia nel continente africano) o l'armatore genovese Ruhattino, passato alla storia perché fornì due navi a Garibaldi affinché vi imbarcasse i suoi Mille diretti in Sicilia ma che, in realtà, era uomo di trame ben più vaste, capace di visioni politiche ed economiche di amplissimo respiro. Non a caso, intuendo i mutamenti geostrategici derivanti dall'apertura del canale di Suez, Rubattino si batte per una celere presenza italiana nel Mar Rosso. Dispiegando una rete informativa e spionistica di tutto rispetto e mobilitando tutta la lobby genovese che unisce in un unico blocco gli industriali della siderurgia agli interessi del mondo armatoriale e militare. Ma se, tra i tanti che muovono i primi passi lungo quella «frontiera» italiana rappresentata dall'Africa Orientale, si vogliono delineare due personaggi rivelatori di modi asso- Il vercelleUltamente diversi e inconciliabili di essere italiani, allora si devono puntare i riflettori sul romano conte Pietro Antonelli, nipote di cardinali e destinato a fulgidissime carriere, e sul suo mitico antagonista in terra abissina, il vercellese Augusto Franzoj. I due uomini, quando nei primi Anni Ottanta sbarcano in Africa, sono pressoché coetanei ma l'età sembra essere l'unica cosa che hanno in comune. Antonelli, nipote del segretario di Stato Vaticano, quando mette piede in Abissinia ha già bruciato esperienze amorose ed affaristiche che gli rendono impossibile rimanere a Roma. E tuttavia il conte romano dimostrerà un'intelligenza e una prudenza, una capacità di sedare contrasti e conquistare (anzi «comprare») avversari che lo portano a dispiegare una carriera di tutto rispetto tra Roma (è rappresentante d'Italia nello Scioa e finirà sottosegretario agli Esteri nel governo Crisoi) e l'Africa. Qui, in particolare, sa conquistare la fiducia del re dello Scioa fornendogli cinquemila Remington che, a differenza di altri commercianti (a cominciare dal francese Rimbaud, ormai dimentico della sua folgorante stagione poetica) non si fa pagare anticipatamente. Antonelli, oltre a legare a sé vari notabili abissini (ras Gobanà è tra questi) in lucrosi commerci di avorio, caffè, pelli, zibetto verso Assab, porta con sé a Roma lo sceicco Abd er Rahman. Lo fa conoscere a corte, gli procura decorazioni pur essendo perfettamente a conoscenza che il suo nuovo socio d'affari ha raggiunto immense ricchezze grazie al traffico di schiavi da Zeila a Beilul. Franzoj ha storia del tutto diversa rispetto al conte Antonelli. A 17 anni si presenta volontario per la terza guerra d'Indipendenza italiana. Quattro anni dopo è coinvolto nel tentativo di colpo di Stato mazziniano. Incarcerato nel forte militare di Fenestrelle evade. Riacciuffato tenta il suicidio e, a questo punto, i militari se ne liberano regalandolo alla contestazione più radicale. Scrive su tutti i periodici più sovversivi e, quando la penna non punge abbastanza, usa la spada: sostiene in pochi anni più di trenta duelli per le cose che ha scritto. Quindi, scontento di tutti - approda in Africa dove, pur di procedere verso l'interno, si finge medico, fabbrica pomate per cavalli, pillole per donne incinte e inventa anche «elegantissimi cavicchi per la dissenteria cronica». E' ad Ancober che questo tipaccio «brutto, orrido, con una barba ispida e coi capelli lunghi e incolti, ve¬ stito da una leggera e bisunta camicia da donna abissina, i piedi avvolti in ritagli di pelle legati con stracci» s'imbatte nel conte Antonelli, compassato, circondato da domestici e stallieri, con le decorazioni italiane che fanno bella mostra sull'impeccabile vestito scuro che indossa in ogni occasione. Tra i due scoppia una mitica contrapposizione. La Società Geografica italiana ha stanziato cinquantamila lire per il recupero delle ossa dell'esploratore Chiarini, ucciso nel lontano regno di Ghera. E' un modo per finanziare le esplorazioni del conte Antonelli in un nuovo e misterioso territorio. Ma di mezzo ci si mette Augusto Franzoj che vuole raggiungere l'obiettivo prima dell'Antoneui e contando solo sulle proprie forze. Per il vercellese è l'inizio di un viaggio attraverso gli orrori che successivamente affiderà alle pagine di «Continente Nero». Tanto per cominciare Franzoj s'infila nella spedizione scatenata da Menelik contro i Galla: «Villaggi in fiamme, morti dappertutto o meglio assassinati. Tutti i Galla al nostro appressarsi incendiano villaggi e fuggono. Restalo invecchi e gUjnfermi: è costoro impotenti a salvarsi o a difendersi sono uccisi o castrati...». Mentre Menelik prosegue la sua campagna Franzoj prende la strada dei territori oromonici. Armato di un solo revolver e con tre servi fornitigli da ras Gobanà fa un blitz a Cialla e al giovanissimo re di Ghera («grosso e grasso come un fenomeno delle nostre fiere») e alla regina madre («che ricorda il tipo di donna fiorentina, nervosa e dura») impone la consegna dei poveri resti dell'esploratore Chiarini. Compiuta la missione se ne riparte velocissimo sino a ricomparire, con in spalla il sacco di cuoio nel quale sono conservati i resti di Chiarini, davanti al conte Antonelli. Al quale consegna la nota spese - trecento lire - per il compimento di quella stessa missione che la Società Geografica era disposta a finanziare cospicuamente purché fosse svolta dal nobile romano. Poi, senza dire parola, Franzoj s'imbarca per l'Italia. Portando si appresso il suo macabro sacco di cuoio. Oreste del Buono Giorgio Boatti Il vercellese Augusto Franzoj, autore di «Continente Nero», e Menelik