«Volevo metterle al dito il nostro anello di nozze»

«Volevo metterle al dito il nostro anello di nozze» RETROSCENA IL DRAMMA m UN UOMO «Volevo metterle al dito il nostro anello di nozze» MONZA DAL NOSTRO INVIATO «Me la dà, una sigaretta?», chiede solo Ezio Forzatti, da domenica mattina nel carcere di Monza con quell'accusa di uxoricidio, che nasconde un gesto d'amore infinito, intenso come la morte. Quella che lui ha dato a Elena, quando le ha tolto il respiratore e i cavi che la tenevano collegata alle macchine salvavita. Se si poteva chiamare vita. «Ho ottenuto quello che volevo, adesso facciano di me quello che vogliono», è rassegnato, neanche spaventato per le conseguenze giudiziarie che sulla carta del codice varrebbero 30 anni di carcere. «Ma i magistrati mi hanno già assicurato che dopo l'interrogatorio andrà almeno agli arresti domiciliari», si dice fiducioso Claudio Zerbini, l'avvocato di Monza chiamato dai famigliari di Forzatti, che ieri mattina è stato a lungo a colloquio con il suo assistito. Una notte in isolamento, controllato a vista minutò per minuto per evitare gesti di autolesionismo, da ieri mattina Ezio Forzatti è in cella con altre persone. «Sono tutti gentili, con me...», assicura lui, una vita semplice senza scossoni fino a domenica mattina, quando si è infilato in una tasca la pistola scarica e nell'altra la fede d'oro. Quella che Elena aveva al dito da 25 anni e che in ospedale le avevano tolto. «Devo portarle questa», aveva tanto insistito, davanti alla porta ancora chiusa della Rianimazione del Nuovo San Gerardo di Monza, primo piano. «Devo!», aveva ripetuto, con la pistola già in roano per aprirsi la strada fino a una delle quattro stanzette con le tende tirate davanti e dentro due letti. Uno per Elena, quarantasei anni, tre meno di lui, una vita insieme a dividere tutto. Fino alla fine, fino a quei venti secondi quando le ha infilato la vera all'anulare come la prima volta. Quando lei aveva detto sì e aveva pure sorriso. Non come adesso che - forse - non ha sentito niente, neanche l'abbraccio di lui. Prima di staccare la maschera con l'ossigeno e spegnere le macchine. «Non ci sono elementi per pensare che sia un gesto premeditato, certo non è l'omicidio di un delinquente», fa i conti delle attenuanti Vincenzo Fiorillo, uno dei due magistrati che mercoledì mattina, insieme al gip Patrizia Gallucci interrogherà Enzo Forzatti. «Di sicuro, c'è solo che è stato un omicidio volontario», assicura il pm. Che da quei 30 anni scritti sul codice, potrebbe togliere pure le attenuanti per le finalità morali di quel gesto. «Io non chiedo niente, voglio solo che si capisca la mia vicenda umana», giura Ezio Forzatti. Che non ce l'ha fatta a vedere Elena spegnersi in pochissimi giorni, con quel male che la mangiava dentro fino a provocarle un'emorragia cerebrale irreversibile. Fino a portarla al coma, alla vita appesa a un po' di tubicini e a una maschera ad ossigeno. «Adesso sono qui, a pensare a quello che ho fatto. A pensare ad Elena», ripete Ezio Forzatti al suo avvocato. Ma l'interrogatorio, il processo, le udienze, la condanna sono lontanissime dalla sala colloqui del carcere di Monza, dove anche l'aria si è fermata. Nel momento in cui questo signore con una giacca blu, una pistola scarica e una fede d'oro in tasca, ha perso la speranza. Ed è come se fosse morto anche lui, insieme ad Elena. «Non volevo che soffrisse più», aveva detto mentre lo portavano via in manette, dopo essersi arreso, perché lei era morta. Perché era finito quel calvario durato dieci giorni soltanto, abbastanza per fermare la vita. Quella di Elena, entrata venerdì 12 in ospedale, il giorno dopo aver salutato i suoi alunni di prima elementare. Quella di Ezio, rimasto nella casa di via Buonarroti a chiedersi perché. «Io sto bene qui, adesso posso finalmente pensare», assicura lui che in quella cella del carcere sembra appena uscito da un incubo. Un incubo con un nome impossibile, piastrinopenia autoimmunitaria. Per i medici è il crollo delle piastrine, i capillari che si devastano, il cervello che si ferma. Per Ezio For¬ zatti è la vita che non c'è più, se non il nulla di una corsia d'ospedale dove sua moglie è lì oramai solo con il corpo. Non si sa, se in quei nove giorni prima che il male esplodesse, avevano parlato di quello che stava accadendo. Di quello che sarebbe successo in pochissimi giorni, gli occhi che si chiudono, il respiro controllato dai farmaci meno affannoso e il buio accompagnato solo dalle lucine delle macchine salvavita, che lei non avrebbe mai visto. Non si sa se c'era un patto d'amore che apriva la strada alla morte. E se anche c'era, Ezio Forzatti sa benissimo che non è per quello, che un giorno saranno più clementi con lui. «Io lo so quello che ho fatto. E' giusto, che adesso sia qui. Ma non ho mai pensato, alle conseguenze del mio gesto», dice rassegnato. In attesa che i magistrati e i giudici, decidano quale sia la sentenza equa. Per lui, già condannato a vivere senza Elena. Fabio Potetti 66 Ho ottenuto quello che volevo adesso facciano di me quello che vogliono: non mi interessa sp nj 66E'giusto che io sia in carcere Ora posso finalmente pensare Volevo che finisse di soffrire jj j| L'avvocato: dopo l'interrogatorio andrà agli arresti domiciliari L'ingresso dell'ospedale Nuovo San Gerardo di Monza e la Rianimazione, dove è morta Elena Forzatti

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