Non chiamatelo omicidio

Non chiamatelo omicidio Ciò che ha fatto è al di là dell'umano diritto di condannare Non chiamatelo omicidio AMonza un uomo è finito in carcere per uxoricidio, reato giustamente fra i più odiosi: niente giustifica l'uccisione della moglie (o del marito), neanche il più feroce disaccordo, neanche l'impazzimento per una o dieci amanti. Per uxoricidio sarà giudicato, e con ogni probabilità condannato. Ogni volta che avrà bisogno di un documento legale, quella macchia salterà fuori. L'uxoricida è colui che ha sposato una donna promettendo di «amarla, rispettarla e servirla nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia, fin che la morte non fi separi»: e poi la ammazza. La giustizia non ha altra scelta che la condanna. Eppure, questo non è uxoricidio, e non è un tradimento dell'impegno preso con quella formula, dell'assistenza nella salute e nella malattia. Qui si trattava della suprema malattia, incurabile o, come dicono i medici, terminale. Cosa voleva dire, qui, «assisterla nella cattiva sorte»? Per la legge, voleva dire lasciarla così com'era afi'infinito, cioè abbandonarla. Ma questo non è neanche abbandono, è un abbandono al quadrato. Perché la moribonda, già entrata in coma, vien bloccata in quello stadio con le macchine, a volte con brevi intervalli di ritorno alla coscienza. Il cuore della vicenda, la spiegazione di tutto, è qui: la morte scientifica è sostanzialmente una morte fermata un atti- mo prima che sia morte, e mantenuta così per ore, per giorni, se possibile per anni. Anche i genitori, vedendo i figli in quello stato, molte volte chiedono la morte immediata, lo spegnimento delle macchine: come ultimo atto d'amore che possono dare a chi hanno messo al mondo, l'ultima protezione. Se fanno questo, si sentono genitori, se non lo fanno si sentono snaturati. Quando lasciarli alle macchine significa abbandonarli, l'unico atto d'amore possibile è intervenire. Questa donna era ormai «di là». Aveva quasi terminato l'ultimo viaggio, aveva visto (se i morenti vedono) io svanimento del tutto, aveva compreso (se i morenti capiscono) il terrore del non-essere. Società, legge, morale, religione, chiedevano al marito di lasciare che la si bloccasse così o si richiamasse di qua, per poi precipitare ancora di là, e tornare di qua... Questo, per la cultura giuridica, è etico. Questo non è punito. Il marito non ce l'ha fatta e dopo la notte delle più acute crisi (coma, intervento al cervello) ha troncato questo andirivieni. Non le ha dato la morte, le ha impedito di morire dieci-venti volte, o di morire una morte lunga come dieci-venti morti. E questo è reato. Pur di compiere l'opera, l'uomo era disposto a morire: ha protetto il compimento del suo lavoro (staccare le spine, una ad una) puntandosi una pistola alla testa e minacciando di stendere davanti ai piedi di medici e infermieri il proprio cadavere. Non l'ha fatta «smettere di vivere». L'ha fatta «smettere di morire». Un diritto che non sappia fare questa enorme distinzione è inadeguato. Quell'uomo, poco o tanto, sarà punito. In questo momento lo stanno interrogando e glielo dicono. Come siamo (scientificamente) impotenti a combattere la morte, così siamo (giuridicamente) impotenti a capire chi combatte la morte in queste condizioni, in cui la morte ha già vinto. Fosse mia sorella, la donna così morta, abbraccerei l'uomo che l'ha fatta smettere di soffrire, e non direi una parola. Ciò che gli è capitato è al di là dell'umano dovere di sopportare. Ciò che ha fatto è al di là dell'umano diritto di condannare. Ferdinando Camon Fosse mia sorella abbraccerei l'uomo che l'ha fatta smettere di soffrire e non direi una parola

Persone citate: Ferdinando Camon