Tito-Stalin, il duello che spezzò il comunismo di Aldo Rizzo

Tito-Stalin, il duello che spezzò il comunismo Cinquantanni fa la rottura tra Jugoslavia e Urss: uno scontro cruciale per il confronto Est-Ovest Tito-Stalin, il duello che spezzò il comunismo NI ON si dice più Jugoslavia, si dice ex Jugoslavia. E si capisce, perché il Paese, anzi lo Stato, degli «slavi del —I Sud» è letteralmente esploso negli ultimi sette anni, in un conflitto atroce che verosimilmente non si è concluso (ci sono ancora il Kosovo e il Montenegro). Ma cinquant'anni fa, la Jugoslavia non solo esisteva, ma era una protagonista della scena europea e per molti versi mondiale, e tutti in Occidente facevano il tifo per lei, perché il suo antagonista era Stalin, e la battaglia che aveva ingaggiato col dittatore sovietico era considerata cruciale per il confronto Est-Ovest. L'uomo che la guidava era Josip Broz detto Tito, un ex capo partigiano di 56 anni, croato, formatosi alla scuola del comunismo internazionale, di osservanza moscovita, e poi diventato l'alfiere di una «via nazionale al socialismo», piacesse o no alla casamadre sovietica. Infatti non piacque, e tra l'inverno e la primavera del '48 si crearono le premesse di uno scontro frontale, che divenne ufficiale il 20 giugno. Quel giorno, a Bucarest, si aprì una riunione del Cominform (l'organismo di collegamento dei pc europei, controllato da Mosca), con all'ordine del giorno «la questione della situazione esistente nel Partito comunista della Jugoslavia». A parte Stalin, che dirigeva la vicenda dal Cremlino, c'erano quasi tutti i maggiori esponenti del comunismo europeo: i russi Malenkov, Suslov e Zdanov, il romeno Gheorghiu Dej, l'ungherese Rakosi, il cecoslovacco Slansky, il francese Duclos e così via; per il Pei, Togliatti e Secchia. La riunione, senza gli jugoslavi, si protrasse fino al 22 giugno, ma il suo esito fu reso noto solo il 28, attraverso l'organo del partito comunista cecoslovacco, il Rude Pravo. Il giorno dopo, era la notizia-bomba di tutti i giornali del mondo, o almeno dell'Occidente. Il comunicato apparso sul Rude Pravo diceva che i dirigenti comunisti jugoslavi stavano attuando «una politica odiosa nei confronti dell'Unione Sovietica», una politica «di svalutazione e di discredito», che dimostrava un atteggiamento «incompatibile con il marxismo-leninismo e adatto solo ai nazionalisti». Quanto al regime interno jugoslavo, esso veniva definito «vergognoso, di puro despotismo turco». Seguiva un appello agli elementi «sani», affinché si sbarazzassero dei dirigenti corrotti e tornassero nell'alveo «internazionalista». Era la prima, grande rottura del movimento comunista internazionale. Eppure, solo nove mesi prima, nella conferenza istitutiva del Cominform, nella località polacca di Szklarska Poreba, proprio gli ju- goslavi erano apparsi i più accesi sostenitori della linea dura dell'Urss, accusando i Pc italiano e francese, e in parte persino quello polacco e quello cecoslovacco, di scarso spirito rivoluzionario. Ma proprio lo zelo dei rappresentanti di Belgrado aveva insospettito Sta¬ lin. Tito voleva atteggiarsi a primo della classe? Ma i contrasti erano antichi, relativamente, risalivano alle fasi conclusive della guerra, quando Stalin, col suo cinismo o con la sua Realpolitik, non escludeva momenti tattici d'intesa col vecchio potere monarchico jugoslavo, e invece Tito era per far coincidere la liberazione con la rivoluzione. Una volta al potere, Tito aveva premuto su Stalin per un arretramento netto dei confini italiani, compresa Trieste, e non aveva nascosto di considerarsi il leader potenziale di un'area danubiano-balcanica, una specie di «subregione» dell'Europa sovietica. Quest'ultimo era stato forse il tema dirompente, che aveva indotto Mosca a ritirare i suoi tecnici dalla Jugoslavia, il 19 marzo, perché «circondati d'inimicizia». Sta di fatto che nessuno o quasi in Jugoslavia accolse l'appello del Cominform a ribellarsi a Tito e quei pochi indiziati di volerlo fare furono subito messi a tacere, in vari modi. La Jugoslavia tenne duro, elaborò un modello alternativo di socialismo fl'«autogestione»), fece cessare l'aiuto alla rivolta comunista in Grecia, prese le distanze dalla politica estera dell'Urss fino ad approdare alla guida del movimento dei «non allineati» con Egitto e India. Quanto a Stalin, non fece il gesto estremo che molti temevano, e che avrebbe potuto scatenare la terza guerra mondiale, cioè l'invasione della Jugoslavia, ma irrigidì ugualmente la sua posizione. Due giorni dopo le conclusioni di Bucarest, il 24 giugno, scattò il blocco di Berlino, una grande sfida all'America e all'Occidente, e all'interno del sistema sovietico si scatenò la caccia al «titoista», con episodi agghiaccianti di repressione, di cui furono vittime anche personaggi come il cecoslovacco Slansky, che pure aveva firmato la condanna di Tito. Il Pei rimase totalmente schierato con Stalin, e questo non contribuì di certo a migliorare il clima politico seguito al grande scontro elettorale del 18 aprile. Sono passati cinquantanni, e di tutto questo non resta niente, in apparenza. Lo stalinismo è morto e sepolto, e lo stesso comunismo, a parte uno sparuto gruppo di nostalgici, sopravvive qua e là, soprattutto in Cina, come puro nominalismo. Anche la Jugoslavia non esiste più. Il modello alternativo dell'autogestione si è rivelato una fallimentare contro-utopia. Tito morì nel 1980, a 88 anni, pensando di aver comunque predisposto buone regole di successione, per salvare l'unità di uno Stato composito, già scosso da forze centrifughe. Ma si è visto l'esito. Aldo Rizzo Il 20 giugno 1948 il Cominform lancia la condanna al Paese che voleva dominare la «subregione» dell'area balcanica A sinistra Tito, a destra Stalin. Al centro parata di truppe sovietiche sulla Piazza Rossa