« Ira assotanoto contro i boss » di Giovanni Bianconi

« Ira assotanoto contro i boss » « Ira assotanoto contro i boss » Palermo, Cossiga difende in aula Andreotti IL CASO L'EX PRESBDENTE TESTIMONE PER UN GIORNO PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Quando l'avvocato Coppi arriva al caso Moro, lui chiede un caffè. «Non so se è prassi, ma si potrebbe avere?.», .domanda al tribunale. Il presidente Ingargiola, inflessibile come sempre, risponde che no, «non è prassi», ma per rispetto all'istituzione che'ha di fronte ordina una pausa. E così l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga può bere il suo caffè, a metà mattinata, mentre depone al processo contro il collega Giulio Andreotti - sono tutti e due senatori a vita, fu proprio Cossiga a nominare Andreotti - accusato di associazione mafiosa. Dopo la pausa dirà che lui di contatti dello Stato con la mafia per arrivare alla liberazione di Moro non ha mai saputo niente, e che durante il sequestro il governo non si preoccupò dei segreti che l'ostaggio poteva rivelare alle Brigate rosse. Di Andreotti sosterrà che era un patito delle leggi speciali contro la mafia, anzi «un assatanato», e che mai Giovanni Falcone gli parlò male del sette volte presidente del Consiglio. Chiamato a deporre dalla difesa, il primo «testimone eccellente» citato da Andreotti non risparmia particolari e impressioni personali, tanto che più volte il presidente lo richiama: «Le sue deduzioni non ci interessano». Quando lo interrogherà l'accusa, ricorrerà più volte al «non ricordo», oppure risponderà candidamente che mentre era ministro dell'Interno della ma- fia si interessò poco o nulla: «L'emergenza era il terrorismo». Alla fine, il bilancio è che la difesa s'è sentita dire tutto quel che voleva dal suo testimone, ma l'accusa non si scompone: per la ricostruzione che vogliono fare, a loro Cossiga va bene anche così. E' solo un problema di date perché c'è un momento, il 1989-'90, nel quale Andreotti sarebbe stato costretto a sostenere la linea dura contro le cosche. Si comincia proprio da qui, da quello che è uno dei capisaldi della difesa: l'impegno antimafia di Giulio Andreotti, che sconfesserebbe alla radice l'accusa di aver favorito Cosa nostra. E Cossiga non si risparmia: alla fine degli anni Ottanta e nei primi Novanta, quando lui sedeva al Quirinale, «Andreotti... scusi presidente se uso questa espressione che di solito si usa per questioni più delicate... in quel periodo era un assatanato nel concepire la legislazione speciale che io giudicavo ai limiti della legalità». Ricorda due episodi, l'ex capo dello Stato, la firma di due decreti-legge proposti dai ministri della Giustizia Vassalli e Martelli. Il primo per allungare, di fatto, la carcerazione preventiva, e il secondo che rispediva in galera i boss liberati da una sentenza della Cassazione. «Io li considerai degli atti di guerra, e solo come tali li accettai dice Cossiga -. Ad Andreotti feci per telefono le mie rimostranze, e lui anziché venire mi mandò Mar¬ telli e Scotti per controfirmare il decreto, per evitarsi la scarica di maleparole che si presero i due ministri». Dipinge un Andreotti forcaiolo, Cossiga: «Io sono un garantista, e in lui non ho mai trovato una sponda per il rispetto dello Stato di diritto e dei diritti della difesa». Parole che sono musica per la difesa del senatore a vita, e ad abundantiam, senza che nessuno gliela chieda, Cossiga regala un'altra considerazione: «Mi ha sempre meravigliato il collegamento tra Andreotti e il giudice Carnevale, perché Andreotti era critico verso la giurisprudenza di Carnevale». La difesa gongola, e mostra di apprezzare l'insistenza del teste sull'anti-garantismo dell'imputato. Se lui era favorevole alle leggi speciali, Cossiga sosteneva invece le leggi eccezionali, e ricorda una sua proposta paradossale: «Si poteva istituire un corpo speciale che andasse in giro per Palermo, per cui se un mafioso, mettiamo un Buscetta, usciva dal carcere, doveva sapere che rischiava di prendersi una pallottola in fronte». Il capitolo Moro lo aprono gli stessi avvocati difensori, e Cossiga spiega che la linea della fermezza fu scelta da subito, «senza tentennamenti». L'unico che gli accennò a contatti con la mafia, dice, fu l'ex capo della polizia Parlato, ma in linea teorica: «Io risposi che non se ne doveva fare niente. Lo riferii ad Andreotti, e lui non fece commenti». Infine il rapporto con Giovanni Falcone, che secondo Cossi¬ ga era vittima non di personaggi come Andreotti, ma di suoi colleghi magistrati che lo osteggiarono in tutti i modi. Alza la voce, l'ex capo dello Stato, quando dice: «Ricordo il calvario del mio amico Giovanni Falcone fino alla morte, e forse la morte gli ha impedito di essere ucciso moralmente». Poi tocca al contro-esame dell'accusa, che cerca di stringere Cossiga sui rapporti tra Andreotti e il chiacchierato Salvo Lima. Lui ribatte così: «Nell'ambiente politico democristiano si diceva che c'erano pesanti ombre su certi esponenti locali, di compromissione con la mafia». Ma non sa attribuire quel «si diceva» a persone con nome e cognome, e allora il presidente Ingargiola taglia corto: «Se sono voci, non ci interessano». Sull'Andreotti «assatanato» di leggi speciali antimafia, i pubblici ministeri - che nelle pause dell'udienza ironizzano tra loro su certe risposte del testimone - sono puntigliosi con le date fino alla noia, ma per loro è una contromossa fondamentale: vogliono dimostrare che l'imputato saltò il fosso solo dopo l'89, quando gli attacchi espliciti di Leoluca Orlando al suo capocorrente in Sicilia, Salvo Lima, lo costrinsero a quella scelta, portata fino a proporre l'arresto dopo la condanna di primo grado. Cossiga tenta un collegamento con le recenti iniziative del ministro Flick, ma Ingargiola lo blocca: «Non parliamo del presente, qui si parla del passato». Giovanni Bianconi «Era un patito delle leggi speciali che io consideravo ai limiti della legalità»

Luoghi citati: Palermo, Sicilia