A Kabul, con i soldati di Dio sotto le bombe dei corrotti

A Kabul, con i soldati di Dio sotto le bombe dei corrotti L'esercito di Massud, il «nemico del Nord», all'attacco della capitale afghana: respinto A Kabul, con i soldati di Dio sotto le bombe dei corrotti REPORTAGE ViA@@RO KABUL DAL NOSTRO INVIATO Al campo di battaglia qui ci arrivi in taxi. Le vecchie Volga spompate non hanno tassametro, ma la tariffa è di 200 dollari tondi, ritorno compreso. Talvolta il ritomo si rivela un optional; per questo, l'autista preferisce che lo paghi in anticipo. La diffidenza non c'entra, i tassisti di Kabul sono gentilissimi; è soltanto che uno, alla fine, impara le lezioni della vita. A Beirut e Sarajevo, questa del tassì era una faccenda di tutti i giorni; ma lì la battaglia ce l'avevi in casa, e il taxi non doveva spostarsi nemmeno di molto. A Kabul invece il fronte sta a 15 km dalla capitale, lungo la strada del Nord. Non è poi un gran viaggio, poco più di mezz'ora e soltanto due posti di blocco. La battaglia di Kabul è cominciata nella notte, alle 4, quando la prima luce dell'alba calava giù ancora pigra dalle nevi dell'Hindo Kush, ed è poi finita che il pomeriggio era avanti e il sole picchiava duro in testa. Erano parecchi giorni ormai che i razzi avevano ripreso a cadere sulla città, e già questo non pareva un buon segno: dall'ottobre '96, quando i taleban hanno conquistato Kabul, qui la guerra s'era ormai fatta una cosa lontana. Certo, la lontananza è più una vaga dimensione dello spirito che non un preciso concetto geografico se devi vivere in una città che è distrutta per più della metà delle sue case, e che quando appoggi un piede per terra dovunque tu vada - non sai mai se poi lo ritiri su tutt'intero o se una mina se l'è portato via. All'inizio ti metti a camminare come se pestassi le uova. Ma ci si fa l'abitudine a tutto. I razzi cadono dove vogliono loro. Quelli che ce li mandano addosso, dall'altra parte della linea del fronte, puntano più o meno verso il centro della città, o verso l'aeroporto; ma poi il seguito è come una lotteria, che non sai mai come vada a finire. H seguito comunque sono i morti che restano stesi sul bordo della strada, una volta che li hanno strappati via da sotto le macerie. Sono storie banali di guerra, ma Kabul è una città in guerra anche se non ti sembra fin che non vedi le pance aperte sotto il sole. I taleban dei posti di blocco leggono con attenzione pignola il lasciapassare del governo, dalla prima all'ultima riga. Sono conosciuti come gli «studenti di Dio» perché vengono tutti (o quasi) dalle scuole islamiche del Sud dell'Afghanistan, una sorta di confraternita che in questa guerra vede una crociata contro la corruzione dei costumi. Pare naturale che quando leggono il lasciapassare, ne computino le parole a mezzavoce: leggono allo stesso modo il loro Corano. Al secondo posto di blocco il taleban aveva in mano una rosa. Quando ha finito di leggere, ha restituito il lasciapassare e ha regalato la rosa. Il fiore aveva un profumo intenso, e i petali color carminio. E il taleban sorrideva timido come un seminarista. Erano le 9, l'aria frizzava ancora del fresco della notte. Kabul è a 1800 metri, distesa dentro un'ampia vallata che le montagne circondano da ogni parte; sono montagne di 6000 metri, con la neve che brilla nel sole. I campi della valle sono verdi di grano, che è già alto; i contadini ci lavorano senza che un suono si levi nell'aria. Ieri mattino, il tuono della battaglia sembrava un sacrilegio. Nel comando, che poi è una capanna di fango requisita a qualche contadino, hanno detto di scender giù dalla vecchia auto spompata e di aspettare. «Occorre il permesso del comandante». Fateh, il tassista, che è vecchio e che sa queste cose, si è seduto all'ombra e si è addormentato, con le gambe ripiegate e la testa sulle braccia. La battaglia era a poche centinaia di metri, se ne sentiva la puzza aspra della fucileria. Le cannonate facevano tremare la terra. Sgommando, è arrivato un pickup, con quattro uomini armati di kalashnikov. I taleban non hanno l'uniforme, vestono il loro camicione e il turbante; e se qualcuno porta gli scarponi che s'addicono a un soldato, molti hanno le pantofole o scarpe da tennis. Ma non sono affatto degli sprovveduti nonostante la loro verecondia da seminario, il miracolo di Allah è solo la mitologia del successo. Quando li vedi combattere, sai subito che sono soldati perfettamente addestrati, gente che di mestiere non fa solo la preghiera. A scuola hanno di sicuro studiato il Corano, ma poi sono intervenuti gli istruttori dei servizi segreti pakistani (Visi, l'Inter Services Intelligence) e gli ufficiali dei Mujaheddui che avevano scelto di passare dalla loro parte: e ne è nato un fior di esercito, con 35.000 uomini, carri, cannoni, e perfino l'aviazione. Alla favola della benedizione divina ormai non ci crede più nessuno. Il taleban che guidava il camioncino ha letto il foglio del ministero, poi ha fatto segno di montare sul pick-up ed è partito a razzo. Dal cruscotto, una musicassette gridava a tutto volume in lingua Pashtun, e copriva anche i tuoni della battaglia. «Khushrang mo shar daiy/ Har taraf ta gul/ Tola donia key da/ Muhajero chugar daiy». La voce era di donna, stridula più delle distorsioni dell'altopalante. «E' una canzone di Kandahar», ha detto l'interprete. Quasi tutti i taleban vengono da Kandahar, la vecchia capitale reale, nel Sud dell'Afghanistan. «Canta la loro nostalgia: "La mia città è bella/ e piena dovunque di fiori/ In ogni parte del mondo/ tutti dicono che ora ci torneremo"». Il taleban ha fatto segno all'interprete. «Mister, questo vuole sapere se ti piace la sua guida». Il pick-up andava come una scheggia, ed eravamo schiacciati fra turbanti e kalashnikov. Il taleban rideva allegro, tutti ridevano allegri. Siamo arrivati in prima linea che gli uomini erano ancora nelle trincee e nelle casematte. Ma la fucileria ormai si stava disperdendo, diradandosi davanti a noi. Le Duchka tiravano a strappi raffiche potenti, capaci di perforare la corazza dei blindati; la pancia e la faccia dei ta1 ebani che le manovrano ballavano violentemente nel contraccolpo. E ogni dieci passi c'era la vecchia mitragliatrice leggera Pika, 5 mila colpi al minuto, un'arma che i sovietici avevano usato nella stessa guerra afghana. «Giù, giù la testa», continuava a ripetere l'uomo del pickup; ma le trincee s'infilavano dentro fitti filari di vite e le grandi foglie ci proteggevano da ogni occhieggiamento. I carri, i vecchi T-62 sovietici, schierati a sinistra, ormai non tiravano più. Le trincee di quest'ultima linea di difesa di Kabul sono una formidabile rete di camminamenti che s'allunga per chilometri, e l'affollata presenza degli uomini rivela che i taleban impegnano su questo fronte molte delle loro forze. La battaglia doveva essere stata comunque dura: camminavamo su un autentico tappeto di bossoli di kalashnikov e c'erano dovunque culatte di razzi e di missili Rpg. A Kabul, qualche sera fa, davanti a una mappa dell'Afghanistan, uno straniero di cui non si capiva bene la nazionalità, ma certamente uno spione al servizio di qualcuno, aveva detto a mezza voce al giornalista che cercava informazioni: «Massud e gli uomini del Nord non vogliono prendere Kabul. Quello che gli interessa è di tenere impegnate qui gran parte delle truppe talebane, e attaccare invece duramente su Herat e Jalalabad». Nelle città in guerra s'incontra strana gente, uomini di destini incerti; spesso sanno cose che nessun altro conosce. «Abbiamo ammazzato 25 nemici - disse poi l'uomo del pick-up -. E' stata dura, ma l'hanno pagata cara». Avevamo camminato dentro quelle trincee per un paio d'ore, e i tiri ormai erano lontani, da qualche parte sotto le montagne che s'alzavano di fronte a noi. «Ora possiamo avere un tè». Ci siamo rifugiati in una di quelle casematte da dove tirano le Duchka, una stanzaccia di mattoni di fango con una decina di coperte stese per terra. Dentro un paio di coperte dormivano due taleban, indifferenti alla battaglia. «Hanno fatto la notte, ora gli tocca il turno di riposo». Ma i due hanno sentito voci straniere, e forse anche il silenzio della battaglia che finisce. E si sono svegliati. Senza^tufbante mostravano la faccia della loro giovinezza. Hanno salutato abbassando la testa. Salarci aleikum. Prima di entrare, tutti c'eravamo tolti le scarpe. E ci siamo stesi sulle coperte. Uno di quelli che s'erano appena svegliati s'è messo in piedi in un angolo, la faccia verso il muro, e ha cominciato a pregare Allah, piegandosi in avanti e poi genuflettendosi. Nessuno gli badava. Un altro stava attaccato al maniglione della Duchka e scrutava fuori dalla finestra. Tutti erano imbarazzati, in Afghanistan gli stranieri sono come i viaggiatori della Luna. Abbiamo parlato per l'intero pomeriggio, bevendo tè bollente, a piccoli sorsi, da bicchieri di vetro sporco. Loro raccontavano di un nuovo mondo da costruire in obbedienza alla legge islamica, la shari'a, un mondo dove l'uomo lavora e la donna sta a casa e fa figli ed è felice. «Ma potremo farlo soltanto quando questa guerra sarà finita». Lo straniero gli raccontava di un mondo dove uomini e donne sono anzitutto persone, e non ci sono ruoli prodeterminati. E la felicità è una difficile scelta personale. L'inizio è stato rugginoso, poi tutti ascoltavano attenti la storia di questo mondo lontano. «Ma sono storie da Paesi ricchi», ha detto il comandante, un mullah giovane, con pochi peli di barba. E tutti dicevano di sì con la testa. «Lui sa il Corano a memoria», ha detto uno. Erano ragazzi e uomini, molto timidi, che rivelavano interamente la loro povera vita di villaggio. No, non hanno salario; e se hanno bisogno di qualcosa, il comandante gli dà i soldi per comprarla; «ma non abbiamo bisogno di nulla». Quanto poi alle famiglie, ci pensa il movimento dei taleban. Vanno a casa raramente, «ogni 4 o 5 mesi, però scriviamo una volta al mese». Ma poi, quando sono a casa, «quello che ci manca sono i compagni di qui, che non vediamo l'ora di tornare». E tutti dicevano sì, che è vero, e ridevano felici e si toccavano con affetto lieve, da collegiali. Abbiamo parlato delle donne e dei loro diritti. Non è stato facile. Ma più che il fanatismo mistico pareva prevalere un forte imbarazzo, spesso superato da forti risate. Tutti hanno molti figli, anche i più giovani; e quando hanno scoperto che lo straniero invece non aveva figli, sono impazziti. «Il vero uomo si vede dai figli che sa fare», ha detto il mullah Ahlaman che intanto ingrassava con cura la canna della sua mitragliatrice. E rideva con tutti i denti. A starci insieme un pomeriggio, i tenibili crociati dell'Islam sono soltanto uomini d'un altro tempo travolti da una storia più grande di loro. Ma il semplicismo manicheo del loro mondo misura la tragedia d'un potere che comunque decide la vita e la morte di un Paese. La battaglia intanto era ormai qualche raro lancio di razzi, che partivano con un soffio sonoro a qualche metro da noi. Calava la sera. Il pick-up che ci ha riportato nella baracca del comando ha riacceso la musica della nostalgia: «Kushrang mo shar daiy/ Har taraf ta gul», cantava a tutto volume. Siamo arrivati che il sole tramontava, e su un paio di coperte stese per terra una decina di taleban pregavano, piegati verso l'ultima luce. Ce ne siamo andati in silenzio, con l'auto di Fateh che ronfava di vecchiaia. Sul cruscotto polveroso della Volga, la rosa del taleban era ormai appassita. Mimmo Candito (2. continua) Al posto di blocco verso il fronte il soldato ha in mano una rosa: legge il lasciapassare e me lo restituisce insieme con il fiore «Vogliamo un mondo in cui l'uomo lavora e la donna sta a casa fci figli ed è felice L'uguaglianza tra i sessi? Sono storie da Paesi ricchi» Due immagini di Taleban in battaglia Non portano divisa ma sono perfettamente addestrati

Persone citate: Massud, Mimmo Candito, Tola