«Violenti perché isolati» di Gabriele Beccaria
«Violenti perché isolati» «Violenti perché isolati» Lo psicologo che li studia «Ecco perché esplodono» Una piccola tribù in una grande tribù. Sono gli esperti che studiano gli hooligans. Li osservano e li seguono, come Clifford Stott, psicologo sociale della University of Aberday Dundee, in Scozia, volato a Marsiglia in tempo per essere testimone in presa diretta degli scontri, delle sassaiole, dei feriti. La sua ultima ricerca si chiama «How conflicts escalates» - come scoppiano gli scontri - e ieri ha trovato nuovo materiale per rimpolpare un'eterodossa interpretazione del fenomeno, che lui stesso non esita a definire diversa da quella di altri colleghi, a cominciare dal sociologo John Williams e dagli scrittori Nick Hornby e John King. «Non possiamo ignorare che loro sono ridotti allo stato di paria». Che cosa significa? Sta giustificando i loro ennesimi scoppi di follia? «Dico che la società inglese detesta gli hooligans, che i media li avvolgono in una mitologia di crudeltà, che la polizia non è certo tenera e che, quando vanno in trasferta all'estero, le altre tifoserie li considerano molto più che pericolosi». Non li starà assolvendo? «No, non li sto certo assolvendo. Ma anche stavolta, qui in Francia, ho avuto la conferma che tutti li identificano automaticamente e immediatamente con la violenza. A Marsiglia mi sono reso conto che l'ostilità della gente era palpabile». E quindi? «Quindi, anche in questo caso è l'ostilità che li circonda perennemente ad aver giocato un ruolo fondamentale nei disordini». A tutti risulta che, comunque, sono stati gli hooligans a cominciare. «Non la penso così. Ho visto molti tunisini che lanciavano pietre contro gli inglesi. Gli hooligans sono esplosi perché dovevano difendersi». Resta il fatto che sono diventati tristemente celebri per un ormai lunghissimo «curriculum» di sangue. «La violenza è una caratteristica di tutte le tifoserie. Anche voi in Italia, o in Germania, avete vissuto molti episodi da dimenticare. Ciò che vedo negli hooligans - come dicevo - è il loro sentirsi sempre minacciati, assediati». Prendendo per buona questa «sindrome da assedio», ci spiega la loro psicologia? «Penso che sia sbagliato attribuire loro una psicologia differente, cioè alterata. Si tratta di tifosi, come gli altri, tra i quali si agita una minoranza particolarmente aggressiva in cui prevalgono i modelli del machismo. Ma per capirla davvero bisogna osservarla in rapporto ai meccanismi psicologici che si mettono in moto all'interno della folla». Vale a dire? «Gli hooligans non reagiscono mai senza motivo: da quanto ho potuto capire, i loro scoppi di furia nascono dall'interazione con gli altri "supporters"». Allora, bisognerebbe evitare contatti di qualsiasi tipo, isolarli. «E invece no. E' proprio il tentativo - che ho visto anche in queste ore a Marsiglia - di tenerli brutalmente da parte che alimenta la spirale, quell'ostilità collettiva che fa da incubatrice alla violenza vendicativa e poi la scatena». Che idea si è fatto dell'«hooligans standard»? Ce ne traccia un profilo? «Non sono in grado di farlo, perché non credo che esista un tipo standard o un profilo sociologico. Certo - come sostengono altri miei colleghi - in molti casi questi individui sono l'espressione di un disadattamento sociale, ma credo che non esista l'hooligan nel senso in cui lo dipinge l'opinione pubblica. Esiste, semmai, quello che definisco lo "hooliganism", cioè l'atteggiamento rabbioso di chi si sente escluso da tutto e da tutti e si vede appiccicata addosso l'etichetta del maledetto». Crede che questa piaga perseguiterà per sempre il calcio britannico? «No, non credo. Alzi, il fenomeno si sta riducendo». Gabriele Beccaria
Persone citate: Clifford Stott, Dundee, John King, John Williams, Nick Hornby
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