A Hong Kong esplode la protesta di Ugo Bertone

A Hong Kong esplode la protesta IL CASO LA CINA CHE CAMBflA A Hong Kong esplode la protesta Pioggia di uova sui Signori del Mercato MONO KONG DAL NOSTRO INVIATO Giovedì si sono presentati in duecento o anche più, bandiere e striscioni al vento, all'imbocco di Exchange Square, il cuore della City di Hong Kong. Ritmando slogan, hanno posato sul portone della sede della Consob locale, la Securities and Futures Commission, i ritratti del presidente della Borsa, Alee Tsui, e della stessa Commissione, Anthony Neoh. Poi, per un'ora buona, i risparmiatori delusi (perché di questo si trattava) hanno sfogato la loro rabbia con un fitto lancio d'uova contro i signori della Borsa, colpevoli di non saper far fronte al crollo del listino, il trenta per cento abbondante da gennaio. Nel weekend, a scendere in piazza sono stati i piccoli proprietari immobiliari, gente che ha visto cadere anche della metà il valore delle case in cui aveva investito i suoi risparmi, o anche più data la generosità con cui le banche concedevano i mutui. Ma in un anno il valore degli immobili è sceso addirittura di 1355 miliardi di dollari di Hong Kong, ovvero 175 miliardi di dollari Usa, qualcosa come 300 miliardi di lire, pari a metà dei depositi bancari della pur solidissima ex colonia britannica. Ed è cominciata la rincorsa tra debitori e creditori. Addirittura, fa notizia da prima pagina il rinnovo di un cre- dito, pur a condizioni molto più esose, a una grande conglomerata immobiliare... «Non permetteremo - ha promesso mister Tung Che Hwa, amministratore di Honk Kong per conto di Pechino - che il prezzo delle case scenda ancora». Ma il pacchetto di Tung non convince nessuno, all'ombra dei grattacieli di Aberdeen, la porta degli affari dell'Asia. «Per mesi - commenta Peter Li - Tung si è limitato a dire che le cose sarebbero andate meglio dopo Natale... E chi ci crede più?». Mister Li, fino a gennaio, faceva l'agente immobiliare. Adesso guida il taxi, e guadagna meno di un terzo di prima. E gli è andata bene, a giudicare dall'andamento della disoccupazione, fino a pochi mesi fa inesistente, poi salita fino al 4%. E adesso si discute apertamente di un tasso di disoccupazione dell'8% entro la fine dell'anno: una tragegia per un popolo abituato, da un quarto di secolo, a ritmi di crescita formidabili, oltre il 15%. E il 60% degli abitanti, del resto, ha meno di 25 anni... E' qualcosa di più di una crisi economica ciò che si consuma sul confine meridionale del colosso cinese, mentre una fila di decine di chilometri di camion va e viene da Shenzen, la prima zona industriale autonoma cmese. E' la fine di un sogno, uno schiaffo all'orgoglio asiatico, aggravato dalla sensazione che si stia consumando un complotto, o almeno un imbroglio, ai danni della grande Cina e di Hong Kong. «Quando Clinton arriverà qui, a luglio - ha dichiarato Tung - gli dirò come stia funzionando con gran successo la formula: un Paese, due sistemi. Ma gli dirò pure che ci attendiamo più impegno per far ripartire l'Asia dagli Usa e dal Giappone. Non è possibile che le due economie più potenti del mondo se ne stiano inerti o quasi di fronte alla crisi». Il calo dello yen, insomma, viene vissuto da queste parti come una leva per sottomettere l'economia e le ambizioni del Drago di Pechino. Tokyo, con il crollo della moneta, recupera fette di mercato in Asia, ma inette a rischio gli equilibri, già precari, della regione. Il Giappone non solo è il banchiere del Far East, proprietario del 50% dei debiti dei vari Paesi dell'area, ma assorbe pure il 20-25% dell'export di Cina, Corea e vicini. Ogni caduta dello yen, perciò, mette i governanti della regione davanti a un dilemma tragico: perdere quote di mercato nei confronti di Tokyo, aggravando la crisi dell'economia, oppure svalutare, pregiudicando il risana¬ mento finanziario. E gli Usa? E' palpabile qui la rabbia di fronte al non intervento americano. La Cina, ripetono in coro gli analisti finanziari di Hong Kong, non intende svalutare il renmimbi e il dollaro di Honk Kong ha mantenuto il peg, ovvero l'aggancio con la moneta Usa, a costo della recessione. «Per Pechino - sottoli- nea Lu Ning, commentatore del Business Times di Singapore - la decisione di non svalutare la moneta ha un grande significato politico. E' un modo per far capire a tutti gli asiatici che la Cina e non il Giappone ha la coscienza della sua leadership nel Continente. Ed è anche un modo per far capire alla finanza mondiale che Pechino è un partner affidabile. Ma occorre che l'America faccia la sua parte...». E invece, sul fronte delle Borse asiatiche, soprattutto ad Hong Kong, gli unici ad agire con fermezza sono gli «edge fund» e gli altri paladini della speculazione. Il gioco è facile: basta vendere a termine pacchi di azioni di società cinesi (le «red chips» oppure le H shares) e comprare dollari Usa contro i biglietti di Hong Kong. Sotto l'imperversare del ciclone monetario salgono i tassi: quelli «overnight», a brevissimo termine, sono saliti dal 7% di giovedì all' 11 di venerdì al 15 di ieri. Il tasso interbancario, ieri, è balzato addirittura al 40%. E' una febbre perversa che mette a rischio le pur immense riserve, 90 miliardi di dollari Usa, che l'ex colonia britannica ha accumulato in decenni di export formidabile, dagli orologi truccati al trading del tessile cinese, e di turismo boom (ma quest'anno gli arrivi sono calati del 30%, i giapponesi a caccia di Gucci o Cartier addirittura dimezzati). La legge dei mercati, insomma, gioca contro la stabilità delle piazze asiatiche mentre i governi occidentali tacciono e il Fondo Monetario sembra incapace di fare scattare il sospirato ciclo della ripresa. Sul banco degli imputati siede il Giappone, colpevole ma vittima se si pensa che i «suicidi d'onore» (legati a perdita del posto di lavoro o a fallimenti) sono stati, nei primi 4 mesi, il 50% in più dei 3556 del '97 (ma erano solo 1272 cinque anni fa). E la rabbia, così, comincia a scaricarsi sugli occidentali, accusati di voler comprare a prezzi stracciati l'economia del Far East e della stessa Cina. «Se questo accadrà saremo costretti a reagire con la guerriglia. Sì, una guerriglia finanziaria che non porterà del bene a nessuno...». Così, quattro giorni fa, predicava alla conferenza del «Nikkei Weekly», la Bibbia finanziaria asiatica, Mahatir Mohamad, il padrone arrabbiato della Malaysia, che ha gridato al complotto della finanza occidentale. «Non sarà così - ammette adesso - ma è un fatto che siamo alla mercé dei capitalisti occidentali, che non guardano in faccia ai popoli». E non è escluso che gli appelli di Mahatir possano accendere gli animi di un Continente esasperato. Chi non ci crede è Lee Kuan Yew, padre del miracolo di Singapore («ho sconfitto i comunisti - ripete senza un proiettile ma costruendo case...»), che anche a Tokyo ha fatto a pezzi le esasperazioni dei dittatori asiatici. «Macché complotto - si è limitato a dire alla conferenza di Tokyo -. Qui ci vuole più trasparenza e più efficienza nei controlli, per attrarre di nuovo i capitali che scappano per l'invadenza dei politici e della corruzione. Troppa gente è rimasta agli Anni Sessanta, da queste parti». Ugo Bertone Dimezzati in un anno i valori immobiliari Si attende la ripresa ma nessuno ci crede Pechino difende il tasso di cambio Gli operatori sicuri: «Una scelta politica»