SUL FILO DI STAROBINSKI

SUL FILO DI STAROBINSKI SUL FILO DI STAROBINSKI Un acrobata della cultura, un «medico» del nostro tempo: Solo in se stessi si trova aiuto, a forza di rigore e di severità « GINEVRA EAN Starobinski, un «maggiore», un terapeuta del nostro tempo. «Credo che nessuno più di lui - non è sfuggito a Yves Bonnefoy - ha contribuito a rivelare la funzione positiva, civilizzatrice, della critica. E' proprio questa la causa dell'autorità che emana dai suoi lavori, e dalla sua parola». Nato a Ginevra nel 1920, saggista interdisciplinare, storico della medicina, psichiatra, ha pubblicato numerosi libri in Italia: da Jean- Jacques Rousseau. La trasparenza e l'ostacolo (Il Mulino) a L'occhio vivente. Studi su Corneille, Racine, Rousseau, Stendhal, Freud (Einaudi); da Ritratto dell'artista da saltimbanco (Bollati Boringhieri) a La malinconia allo specchio (Garzanti). Sabato sarà in Italia per ricevere il premio Grinzane Cavour «Una vita per la lettura». In che cosa la Svizzera l'ha segnata maggiormente? «Sono stato segnato dalla serie di scuole ginevrine per cui sono di scuole ginevrine per cui sono passato. Bambino, sono stato allievo della nuova scuola fondata dallo psicologo Edouard Claparède, poi ho incontrato la grande tradizione classica al Collège de Genève. In seguito, all'Università, ho ricevuto la lezione della linguistica saussuriana, e contemporanemente l'insegnamento di Marcel Raymond. Nel corso dei miei studi ho avuto il privilegio di incontrare Contini e Benveniste, ma anche il poeta Pierre Jean Jouve, rifugiato a Ginevra. I due poh della mia formazione sono stati la poesia e la scienza esatta. Durante la guerra, gli amici svizzeri che incontravo regolarmente (Albert Béguin, Jean de Salis, André de Blonay) erano uomini che si opponevano ai totalitarsmi che dominavano il resto d'Europa». Ginevra, ovvero Rousseau. Lei riceverà il premio Grinzane Cavour a Torino, l'altra città di Jean-Jacques. Qualcosa la lega alla capitale piemontese? Nella sua geografia culturale occupa un posto di rilievo? «L'interesse per Rousseau non è stato immediato. La mia prima pubblicazione fu un'antologia di Stendhal (1944). Il mio secondo libro una traduzione di Kafka (1945). L'Italia inizialmente l'ho vista attraverso Stendhal. Sono stati i contatti con gli animatori di Studi Francesi, presi in Sviz zera, a farmi poi scoprire Torino». Lei, per riferirsi al titolo di una sua opera, è una sorta di saltimbanco, un acrobata fra letteratura, medicina, psichiatria, musica, filosofia. Quindi, un osservatore a tutto tondo della condì' zione umana. Ecco: qual è la salute dell'uomo d'oggi? «Dopo gli studi letterari, ho in trapreso e portato a termine studi di medicina, dedicando non poco tempo alla psichiatria. C'è un soggetto che mi ha interessa to costantemente, in ambito letterario e psicologico: la maschera e la denuncia della maschera, laddove vengono sfiorate la ma linconia e la mania. E' da questo punto di vista che ho interpretato Montaigne, La Rochefou cauld, Rousseau, Diderot, Sten dhal, Baudelaire. Lo studio sugli anagrammi di Saussure appartiene alla stessa problematica del nascosto. Io abbordo il domi nio artistico solo per cercarvi te stimonianze complementari. Il problema di oggi? Mantenere in vita la democrazia favorendo la responsabità illuminata degli individui. Il pericolo è nella generalizzazione dell'irresponsa bilità e dell'oscurantismo, che sono la china più facile». La rinascita del Sacro caratterizzerebbe questo fine Novecento. Stiamo assistendo a un'ondata di superstizione o, a soffiare, è un autentico spirito religio so? «Il senso del sacro è associato alla sensazione di ciò che sfugge al nostro dominio. Il sacro può es sere solo annunciato. Non è mai possedibile. Gli abusi sono legati agli atteggiamenti possessivi. Montesquieu diceva, all'incirca, che bisogna far rispettare la divinità, e non mai volerla vendicare». Si ha talvolta la sensazione che la voce di Giovanni Paolo n sia l'unica in grado di levarsi sui saturnali con- temporanei, di raggiungere l'uomo, al di là della capacità di convincerlo o meno. E' così? E dove la cultura «laica» è in difetto, mostra la corda, si rivela impotente? «Io auspico che il rapporto di ciascuno con la trascendenza vada di pari passo con il rispetto dei valori più semplici: il rifiuto della violenza, l'equità, il rispetto della dignità dell'altro, in quanto essere libero e ragionevole. La filosofia e l'autorità religiosa possono fare discorsi concordi. Né l'uno né l'altro hanno il potere di persuadere chi ha la testa piena di rumore». Qual è il primo libro che ricorda di aver letto? Qual è il primo libro che l'ha interrogata, che, col senno di poi, ha sollecitato la sua vocazione? «A questa domanda posso rispondere solo in maniera approssimativa. La voglia di scrivere mi è venuta, tra il 1935 e il 1939, leggendo la Nouvelle revue Franqaise. A diciotto anni, ho ammirato Valéry (Monsieur Teste), Claudel (la Cantata a Tre Voci), Rilke (i Sonetti a Orfeo). E anche i saggi di Raymond, Rou- §emont, Caillois, che mi hanno ato la convinzione che la prosa di idee può produrre un'intensa emozione, legata all'esperienza intellettuale. L'impulso è venuto da loro, ma io ho tentato di fare tutt'altra cosa». Sono molti gli autori che ha accostato e studiato. Da Montaigne a Montesquieu, da Rousseau a Diderot, da Baudelaire a Stendhal. Quale le è di maggiore aiuto per attraversare il nostro tempo? E perché? «Solo in se stessi si trova aiuto, a forza di rigore e di severità. Anche i limiti delle grandi menti possono insegnarci qualcosa. Quelli che lei cita hanno dato una risposta molto vigorosa al loro mondo, che non è più il nostro. Leggendoli, apriamo un dibattito in noi stessi. Dobbiamo chiederci in che cosa il nostro mondo è diverso, e a quali condizioni i principi difesi dai pensatori del passato possono continuare a fare testo nelle circostanze presenti. Questo è il dibattito fecondo, e che deve farci progredire. Cui si deve aggiungere l'interrogazione critica dei sintomi della nostra epoca, che non deve essere confinata nel solo ambito delle arti e della cultura». Il Novecento. Quale scrittore, quale artista e quale musicista lo rappresentano meglio, ne interpretano con più fedeltà la cifra distintiva (e in che cosa si è caratterizzato il secolo che va a finire)? «E' impossibile stabilire una gerarchia assoluta o un canone delle grandi opere, perché tutto dipende da una serie di rapporti molteplici. Le grandi testimonianze sugli aspetti atroci del Novecento non devono assolutamente venir dimenticate (Primo Levi, Solzenicyn). Le arti hanno conosciuto innovazioni e deterioramenti. Le ime e gli altri sono rivelatori. Hegel aveva visto nel Nipote di Rameau l'opera rivelatrice dello spirito dei Lumi. Forse l'opera rivelatrice del ventesimo secolo bisognerebbe cercarla nel campo del cinema (che io conosco poco). La cercherei volentieri nell'opera di Fellini, che è un po' il Flaubert del cinema. Ma le mie conoscenze in questo campo sono troppo lacunose». Fra gli scrittori italiani ha prediletto Italo Calvino, al punto di curarne le «Opere» per i Meridiani Mondadori. In particolare ha osservato che Calvino è «già balzato nel prossimo secolo». In che cosa il signore delle «Cosmicomiche» è «avanti», è antesignano delle stagioni che verranno? «Mi piace Calvino per la rapidità del suo sguardo, la sua acutezza sensoriale, la sua dizione perfetta. Mi sento complice del suo amore per l'Ariosto e Basile. Ispira la sensazione dell'energia, per la quale si oppone al grandissimo Samuel Beckett che esprime, lui, il tragico dell'esaurimento e della rarefazione interiori, affini alla malinconia». A Calvino, sembra di capire, lei il Nobel lo avrebbe conferito. E a Dario Fo? Qual è la sua opinione sull'autore del «Mistero buffo»? E' d'accordo con chi considera Eugenio Montale l'ultimo Nobel italiano? Oltre a Calvino, quali scrittori italiani apprezza? «Ci sono molti autori insigniti del Nobel che non ho letto. Dario Fo è uno di loro. Ma questo non implica nessun giudizio di valore. Il pensiero dei meriti rispettivi degli scrittori del mondo intero per fortuna non è la mia preoccupazione principale. Io ho la sensazione che quando si è personalmente, nella maniera più modesta che ci sia, produttore di testi letterari, è impossibile essere allo stesso tempo consumatori bene informati. Devo rassegnarmi alle mie lacune, in quanto ai riferimenti da prendere nel paesaggio letterario. Leggo molto arbitrariamente, in funzione dei miei lavori. Così ho letto di recente Foscolo (in rapporto con Chénier), Leopardi (la Ginestra), Montale (Stanze), Ungaretti (una poesia sulla rosa)...» Torniamo a Calvino. Lei ha scritto: «Cerco invano, ai nostri giorni, uno scrittore che meglio di lui soddisfi alla domanda di piacere del lettore e nel contempo mantenga desta l'attenzione della teoria letteraria più esigente, replicando da pari a pari». Sono parole del '91. Da allora è affiorato uno scrittore che si avvicini a Calvino? «Dal 1991, ho rcritto molto su soggetti di storia delle idee, o di storia della poesia (risalendo a Omero, a Saffo, a Catullo, a Petrarca, ecc.). Purtroppo l'unico nuovo autore che ho potuto leggere in questi ultimi tempi sono io stesso, confrontato a questi meravigliosi testi del lontano passato... lo mi rileggo con qualche disagio, e provo costantemente la tentazione di correggere». La critica letteraria: quali compiti le attribuisce? «La critica letteraria deve associare l'esattezza della filologia con un'ispirazione e un'invenzione tali da suscitare un piacere di natura poetica. Difficile unione». «Largesse», «A piene mani», è il titolo di un suo saggio. Che cosa vorrebbe ancora afferrare? Quali sentieri le restano da percorrere? iCLargesse è mio studio letterario che parte da alcune scene di "dono fastoso". Seguo la traccia dell'influenza di un testo di Rousseau su Baudelaire, e di Baudelaire su Huysmans. Questi tre autori evocano battaglie di fanciulli, che si disputano il cibo che è stato loro gettato o regalato. In contrasto, ho evocato la carità, il dono e la spartizione equa, e alcune illustrazioni di questi diversi temi da parte di artisti. Non è un libro di Storia dell'arte, certi critici affrettati non l'hanno capito. Avrò occasione di riprendere e completare queste analisi in una nuova raccolta di studi su Rousseau. E poi i miei vari studi su Diderot, pubblicati in vari Paesi e per lo più inaccessibili, verranno raccolti in volume». Riconosce nella «malinconia» il suo destino, la fedelissima compagna di una vita? «Il trattamento della malinconia fu il soggetto della mia tesi di medicina. Non mi considero tra le vittime della noia e dell'accidia. Ma a costo di un'osservazione attenta, che non sarà mai finita». Bruno Quaranta «Ce un soggetta che mi ha sempre interessato: la maschera eia sua denuncia, dove r,„sLsfiorano la mania e la malinconia» «Qual è il problema di oggi? Dobbiamo mantenere in vita la democrazia favorendo la responsabilità degli indivìdui» Jean Starobinski (foto grande) è nato a Ginevra nel 1920 A destra: Italo Calvino, di cui il critico svizzero ha curato le Opere per i Meridiani Mondadori Jean-Jacques Rousseau, il filosofo e letterato svizzero, autore delle «Confessioni», fra le figure al centro degli studi di Starobinski Primo |ì Levi I fra i grandi testimoni delle atrocità di questo secolo |ì I Solzenicyn L'autore di «Arcipelago Gulag», come Levi, è per Jean Starobinski indispensabile per «leggere» il nostro tempo