CHI HA UCCISO IL ROCK

CHI HA UCCISO IL ROCK Da musica ribelle dei teenager a «grande truffe»: Bertoncelli ha raccolto gli articoli della sua implacabile diagnosi trentennale CHI HA UCCISO IL ROCK ■jTyIEL giugno 1975 apparve 111 sulla rivista Gong un artiw colo di Riccardo Bertoncelli 1 che analizzava, con eviden■ ì Ite entusiasmo, il nuovo disco di una band celebre. La band era nota con l'acrostico CSN&Y, ovvero Crosby (David), Stills (Stephen), Nash (Graham) and Young Neil): quattro eroi rock, quattro anime di una musica che in una ventina d'anni, dalla metà dei Cinquanta, aveva accompagnato la presa del potere da parte delle giovani generazioni. Il disco s'intitolava Red Wood, sequoia. Ed era, a detta dell'Autorevole Critico, il capolavoro definitivo. Poiché Gong era un periodico musicale di tendenza, ma di scarso peso «commerciale», gli altri critici rock italiani rimasero di stucco. Nessuno aveva ricevuto quell'album per recensione. Nessuno ne sapeva nulla. La casa discografica di CSN&Y fu subissata di richieste da parte dei negozianti, a loro volta incalzati da un pubblicò bramóso di entrare in possesso del capolavoro. Ma non potè farci nulla. Semplicemente, quel disco rjon esisteva. Era un'invenzione, perfida, di Bertoncelli. L'articolo può oggi essere riletto in Paesaggi immaginari, edito da Giunti: un'ironica e autoironica «compilation» di scritti che Riccardo Bertoncelli ha dedicato al rock nell'arco di circa trent'anni. Come ogni beffa situazionista, anche quella bertoncelliana dimostra qualcosa. Magari al di là delle intenzioni dell'autore. Per esempio, dimostra che l'agonia del rock non è cosa recente: è cominciata in quei mitizzati Anni 70 che per molti restano la «golden era» di una musica ben presto suicida con il più scontato dei sistemi: la perdita dell'innocenza, e della creatività. Si può recensire un disco che non esiste perché, se esistesse, sarebbe comunque così, lutto è previsto e prevedibile. That's show business, babe: che diavolo c'entrano creatività e innocenza? Riccardo Bertoncelli è uno scrittore di cose rock - «critico» è termine inadeguato, e screditato - che uscì dalla storia per entrare nella leggenda quando mi inferocito Francesco Guerini gli dedicò gli immortali versi dell'Avvelenata: «Cosa devo dirvi, andate, fate: tanto ci sarà sempre, lo sapete, un critico fallito, un pio, un teorete, un Ber toncelli, un prete a sparare cazza te». Guerini era inquieto per certe frecciatine bertoncelliane. In se guito fra i due ri fu un chiarimento, la cosa s'appianò. E lo stesso Gucci ni, nel prosieguo della lunga carriera, ha dovuto sperimentare ben al tri, e più attrezzati, sparacazzate. Invece, il libro di Bertoncelli di- mostra, con il senno di poi, che tanto cazzate certe uscite non erano: anzi. Pur essendo una raccolta di vecchi articoli, Paesaggi immaginari diventa, nell'insieme, un saggio sulla vicenda terrena del rock tra i più compatti e implacabili. Forse perché consente al lettore di identificare le origini remote di mali che oggi sono sotto gli occhi di tutti. A cominciare dall'ascesa e caduta dell'impero beatlesiano, così sintetizzata: «Gli eroi muoiono giovani... e così i Beatles scelsero di morire, un giorno dell'aprile 1970, con bella e rara lungimiranza. Fossero rimasti ancora sulle scene, la storia li avrebbe sciupati fino allo spregio». Domani approda a Milano il geriatrico tour di un'azienda commerciale che si fa chiamare Rolling Stones, capitanata da un uomo di 55 anni il cui nome è Mick Jagger. Costui, quando di anni ne aveva venti, dichiarò: «Mi sentirei un cretino a cantare il rock a quarant'anni». Appunto. Mentre Jagger rilasciava tale dichiarazione a futura memoria, la «grande truffa» era ormai perpetrata, complice la mitizzazione del nulla: a cominciare da quella Woodstock che segnò il passaggio da una musica nata libera a un ben orchestrato progetto industriale ammantato di finti ideali. Una «Woodstock che ogni ragazzo dei Sessanta porta dentro di sé e che è pronto a giurare che non accadrà mai più: vero, giusto, per la semplice ragione che quel "pace e amore e buona musica" non è accaduto mai a memoria d'uomo, mai, nemmeno a Woodstock». Nessuno ascoltò - o capì - veramente lo slogan che all'epoca circolava tra i teenager, «non fidatevi di nessuno che abbia più di trent'an¬ ni». Andò a finire com'era ovvio che finisse, e la musica ridivenne merce. Oggi, l'applicazione di quel motto al mercato discografico cancellerebbe automaticamente il 90 per cento dei dominatori delle classifiche pop internazionali. Perché sono vecchi. Alcuni anagraficamente: e sono i più patetici. Altri, artisticamente: e sono i più fastidiosi. Specie se - tristi replicanti di replicanti - si fingono nuovi. Eppure, prima di David Bowie e della «marmaglia del glam rock» - scrive Bertoncelli in un articolo del '97 dedicato con tutto il fiele possibile al «Duca Bianco» -, il rock «non si era mai guardato allo specchio, non aveva indugiato con la propria immagine: fu solo dopo aver mangiato quella mela avvelenata che venne preso dall'angoscia delle proprie sembianze e si perdette. Tutto questo nei "favolosi Anni Settanta"». Ecco. Il morbo che ha ucciso il rock non è tanto la commercializzazione, l'appiattimento sulle pretese di un mercato mondiale e banale, la gerontocrazia degli inevitabili dinosauri, l'avvento della Mtv con la prevalenza dell'immagine sulla musica, la superficialità di una critica ormai più dannosa che inutile. Il male oscuro è l'autoreferenzialità. La media produzione pop contemporanea può essere ben condensata nelle considerazioni che Bertoncelli riferisce a un paradigma del kitsch musicale, Nothing like the sun di Sting: «Un disco vanitoso... che nello splendore dei timbri e nella gloriosa architettura dei ritmi canta le lodi del suo creatore». E così sia del rock. Che riposi - finalmente - in pace. Gabriele Ferraris Commercializzazione, invecchiamento degli interpreti, critica superficiale E dai «favolosi Anni 70», con Bowie, l'ossessione per la propria immagine Qui a fianco Mick Jagger in concerto. Nella foto sotto Riccardo Bertoncelli Andrew Lloyd Webber, autore di musical di grande successo come «Jesus Christ Superstar»

Luoghi citati: Milano