L'ultimo errore di Milosevic

L'ultimo errore di Milosevic DALLA PRIMA PAGINA L'ultimo errore di Milosevic Declino di un nazionalista per opportunismo ■PjU nel Kosovo, sacrario Hi serbo trasformato dalla m vertiginosa proliferazione albanese in una bomba demografica antiserba, che Milosevic smise i panni e il linguaggio del vecchio comunista per assumere quelli dell'ultranazionalista. Fu nel Kosovo che egli, sopprimendo nel 1989 la larga autonomia concessa alla regione da Tito, avviò la cieca politica di contestazione e repressione delle autonomie locali che di lì a qualche anno doveva portare i serbi alla sconfitta nella guerra contro gli sloveni, i croati e i bosniaci. Fu nei discorsi razzisti declamarti' a-Pristina, capoluogo del Kosovo, che Milosevic sfoderò la teoria e l'ascia della «pulizia etnica» nel tentativo di rivitalizzare con estrogeni nazisti il consunto veterocomunismo serbo. Fu sempre nel laboratorio del Kosovo, popolato da centomila serbi contro circa due milioni di schipetari alieni, islamizzati, non slavi, che Milosevic concepì le prime mosse della crociata genocida che avrebbe dovuto dare spazio vitale all'espansione di una Grande Serbia dilatata dalle rive della Sava fino alle coste adriatiche. La vagheggiata idea era di rifondare nell'età instabile del postcomunismo, sulla pelle degli albanesi, dei croati e dei bosniaci, l'impero medievale di Stefan Nemanya che proprio nel Kosovo aveva avuto le sue origini ortodosse mitiche e mistiche. Il progetto megalomane di Milosevic, costruito iniziai mente sul congelamento am ministrativo dell'indipenden tismo kosovaro, proseguito quindi con la mobilitazione delle diaspore serbe usate come quinte colonne armate contro gli slavi cattolici di Croazia e quelli musulmani di Bosnia, doveva esaurirsi nei massacri fratricidi, affogare nel sangue e fallire completamente. Dopo quattro anni di guerra, dopo centinaia di mi gliaia di morti, Milosevic ha infatti ottenuto esattamente il contrario di quello che voleva ottenere. Le popolazioni serbe sono state decimate in Croa zia, umiliate e impoverite in Bosnia, costrette all'esodo dal Kosovo. Invece di una Grande Serbia sono emerse, dai fran turni della Jugoslavia, una Grande Croazia sovranamente estesa dalle pianure pannoni che alla Dalmazia meridionale, una ricca Slovenia in procinto |. di raggiungere l'Unione Euro pea, una pacificata Bosnia-Er zegovina internazionalmente riconosciuta e garantita dagli accordi di Dayton, una Macedonia benestante e stabile, no nostante le inquietudini della sua cospicua minoranza alba nese messa in stato d'allarme dall'aggressione di Belgrado contro i connazionali del limi trofo Kosovo. Quanto alla Serbia vera < propria, essa, in questo momento, sta affrontando per la prima volta in presa diretta una campagna di tipo afghano contro un esercito dì durissimi guerriglieri schipetari, che controllano già un terzo della regione e minacciano il capo luogo di Pristina da venti chi lometri di distanza. La condu zione della guerra, poiché guerra è, non è più affidata alle marionette esterne di Belgrado, ai Karadzic di Pale o ai Matic di Knin. E' il burattinaio stesso, Milosevic, che la deve condurre con proprie truppe scelte, sul proprio territorio, assediato dalle sanzioni e dalle misure militari occidentali, insidiato dalla dissidenza politica dei montenegrini che, congiungendosi al separatismo armato dei kosovan, minaccia di dissolvere quel che resta della piccola Jugoslavia costruita attorno all'epicentro egemonico serbo. Anche il fronte interno, alle spalle di Milosevic, appare fragile e vulnerabile. L'ultranazionalista radicale Vojislav Seselj, l'uomo forte del governo belgradese, lo sorregge con una mano mentre lo fustiga con l'altra, accusandolo di cedevolezza fisica verso gli occidentali e di debolezza psicologica nei confronti dei russi. Le città serbe sono stret¬ te dalla penuria, affollate di profughi, coi giovani sempre più insensibili alla demagogia sciovinista e poco inclini a immolarsi per la conservazione del Kosovo. L'«Economist», con sprezzatura icastica, ha definito Milosevic «il nazionalista più incompetente della storia contemporanea». Verissimo. Se il metro di giudizio e di successo, che in genere si applica a un leader nazionalista, va ritagliato sui risultati della sua politica esterna di espansione o di consolidamento interno della nazione, allora si può ben dire che l'incompetenza ha giocato un brutto tiro al nazionalismo sanguinario e insieme dilettantesco della superstimata «volpe dei Balcani». La verità è che il nazionalismo miloseviciano è stato da sempre, è tuttora, un nazionalismo falso, tribunizio, puramente strumentale, un mezzo ignobile più che un fine nobile, con il quale il vecchio cinico comunista ha cercato di puntellare e consolidare un potere usurpato e poi di conservarlo a qualunque prezzo: abbandonando i serbi di Croazia e di Bosnia al loro destino, piegando la schiena a Dayton sotto la sferza americana, cooptando il neofascista Seselj nel governo, elevando la moglie e complice Mira alla guida di un partito marxista alleato del partito socialista di cui lui stesso è il lea¬ der. Un nazionalismo opportunistico, appiccicato dall'esterno ai miti serbi, ma sradicato dai reali interessi nazionali serbi, doveva per forza ignorare il realismo senza il quale ogni strategia politica è destinata al fallimento o, peggio, al disastro. Nel Kosovo c'era, almeno fino all'altroieri, la possibilità per la Serbia di applicare una politica realistica ad una situazione esplosiva. Dopo la lezione bosniaca, bastava attenuare il registro etnocentrico, restituire l'autonomia amministrativa ai kosovari, rispondere con la carota anziché col bastone alla politica moderata e pacifista di Ibrahim Rugova, presidente del governo semiclandestino del Kosovo. Ormai Rugova è scalzato e superato dagli oltranzisti del secessionismo guerrigliero che gli preferiscono un ispiratore più bellicoso: lo scrittore Adem Demaci, il Mandela del Kosovo, ospite per 29 anni delle carceri jugoslave. L'ultima soluzione che non solo Rugova, ma lo stesso Demaci, offrivano ai serbi era saggia: una confederazione paritaria fra Serbia, Kosovo e Montenegro. Era la sola via d'uscita dal tunnel. Ormai è troppo tardi per tutti. La parola è passata alle armi. La guerra o guerriglia ha messo in poche settimane radici, già lambisce la Macedonia, destabilizza l'Albania, allarma la Grecia e la Bulgaria. Ogni ora che passa pone in grave ritardo anche le decisioni dell'Occidente e della Nato, quanto mai oscillanti nella scelta tra la forza e la diplomazia. La diplomazia, sostenuta da sanzioni effimere e da minacce solo virtuali, potrebbe prolungare il gioco alla sopravvivenza di Milosevic. Un trauma militare potrebbe invece detronizzarlo a Belgrado e, facendolo cadere, contribuire ad un mutamento subitaneo quanto positivo dell'intero quadro politico e strategico regionale. Il solo che sembra averlo capito è Tony Blair. EnzoBetHza Assediato dall'Occidente, alle prese con una guerriglia feroce isolato ormai anche all'interno Solo l'ennesima oscillazione tra forza e diplomazia potrebbe consentirgli di sopravvivere I caccia americani partiranno dalla base di Aviano coinvolta in primo piano nelle esercitazioni aeree con cui la Nato conta di far recedere il leader serbo Slobodan Milosevic (a lato) A destra Vojislav Seselj leader dei radicali serbi