la battaglia per il porto di Vincenzo Tessandori

la battaglia per il porto Si apre un terzo fronte a Sud, mentre l'aviazione eritrea riprende i raid: vittime e distruzioni la battaglia per il porto Si combatte a Assab, bombe su Adigrat ADDIS ABEBA DAL NOSTRO INVIATO E ieri si è chiuso il cerchio. Perché, ormai, si combatte da Settentrione a Mezzogiorno, nel triangolo conteso a Nord-Ovest di Makallè e nella piana su una cornice di un paesaggio senza speranza, forse il più devastato del mondo: il deserto della Dankalia. E poi c'è stato un raid aereo che ha insanguinato Adigrat, causato morti e feriti e forse mandato in fumo le ultime speranze di far ritrovare la ragione. Il tempo scorre rapido e, d'improvviso, è forte l'impressione che non ce ne sia più, che questa guerra fra Eritrea ed Etiopia per un fazzoletto di pietre e sabbia finirà per dissanguare ancora una volta due Paesi bisognosi di tutto. Dunque, si spara sulla strada che porta al mare, ad Assab, al desiderio inconfessato dell'Etiopia. Il fronte meridionale si è aperto quando una striscia pallida, laggiù ad Oriente, ha rischiarato il cielo e fatto capire che, ormai, era tempo di combattere e tempo di morire. E sono stati gli eritrei, accusano qui, ad attaccare. Come le altre volte avrebbero giocato d'anticipo e tirato due affondi attorno alla cittadina di Bure. E questo mentre molti pensavano che sarebbero stati i soldati etiopi a far valere il peso dei loro carri armati e che la minaccia di una corsa fino al mare avrebbe fatto riflettere. Perché l'Eritrea sembra avere il suo tallone d'Achille proprio in quella piana così remota da Asmara e così difficile da raggiungere. E' la terra degli Afar, quella, e già il loro nome fa capire come non siano gente disposta a sottostare agli ordini di una capitale, perché Afar significa «liberi» e loro ora intravedono la possibilità di cacciare l'ultimo padrone. Magari con l'appoggio etiope: in fondo, ci si può sempre mettere d'accordo. Lo scontro comincia sempre nello stesso modo: un uragano di pallottole e razzi, appena la luce incerta consente di scorgere il profilo del nemico. Poi la prima ondata, con i soldati che stringono il Kalashnikov e sparano davanti a sé, quasi alla cieca, per farsi strada e per farsi coraggio. Settanta chilometri, una striscia breve, poi il Mar Rosso, è quello l'obiettivo, il porto, perché attorno ci sono solo sabbia, sassi e sale ormai insanguinati. Eppure, su un cucuzzolo su a Nord, il mattino del 30 novembre 1974 i paleontologi Donald C. Johnson, statunitense, e Yves Coppens, francese, del Musée de l'Homme, scoprirono uno scheletro quasi completo di Australopiteco, vecchio di almeno 3 milioni e mezzo di anni: Lucy, il nostro avo. Chissà se anche lei era in armi, quando fu colta dalla morte. Il primo attacco a Bure è arrivato dal lato destro, la replica è stata una manovra di aggiramento, che ha tentato di colpire alle spalle. Di fronte gli etiopi dicono di aver avuto un'intera brigata. Nemico battuto, assicurano, attacchi respinti. Morti e feriti, e prigionieri, fra gli eritrei. Qui non si parla di perdite, soltanto di successi mili¬ tari. Si dice che alcuni tra i soldati catturati abbiano 16-17 anni: ragazzi inquadrati per portare avanti un programma di sviluppo, su ad Asmara, che come primo attrezzo avrebbero ricevuto il Kalashnikov. E di successo si parla pure per gli scontri a Erde Mattios, cominciati l'altro giorno. Insomma, le sole perdite, non soltanto ammesse ma sottolineate, l'Etiopia le avrebbe subite fra la popolazione civile. Morti, si ripete, soprattutto donne e bambini, falciati dai razzi o dalle bombe dei caccia eritrei, apparsi poco dopo mezzogiorno dal Nord. E' stato un attacco improvviso che lo sbarramento contraereo non ha filtrato: gli Aermacchi sono agili e anche se appe¬ santiti dalle bombe è difficile contrastarli. Hanno puntato su Adigrat e sganciato, forse alla cieca, anche se sulle mappe dovevano pure avere obiettivi militari. Alcune case sono saltate in aria e la gente è morta, donne e bimbi, ripetono gli etiopi. L'attacco ha anche mandato in fumo un deposito di grano. Dunque, un'impennata, e proprio il giorno dell'arrivo, qui ad Addis Abeba, di una delegazione nordamericana e di Paul Kagame, vicepresidente del Ruanda. E da Asmara rimbalza l'eco della presa di posizione di Isaias Afeworki, il Presidente che tutto decide. Il piano made in Ruanda & Usa non lo soddisfa, parla di uno strumento «ormai logoro». Prima ancora di essere adoperato. Forse per questo, l'altro giorno, ha spedito al Cairo una delegazione. Il presidente Mubarak potrebbe essere l'uomo giusto per evitare che la foiba trionfi. Identica cosa devono pensarla anche gli etiopi, che pure hanno legami stretti con americani e ruandesi, tanto che oggi anche Seyun Mesfin, ministro degli Esteri, arriva ai piedi delle piramidi con un messaggio per Mubarak. Il lavoro degli egiziani in ogni modo, ha chiarito Amr Mussa, ministro degli Esteri, rientrato al Cairo dal vertice dell'Oua (Organizzazione dell'unità africana) non è in concorrenza con il piano studiato da Ruanda e Usa. E domani torna in campo l'Italia: Rino Serri, sottose gretario agli Esteri per i problemi africani, vola ad Asmara, poi tappa ad Addis Abeba, quindi, sem bra, di nuovo ad Asmara. Ormai rimangono da giocare poche carte e prima di calarle occorre riflettere a lungo. Ma c'è sempre meno tempo o forse non ce n'è più. Lo sapremo presto. Vincenzo Tessandori Addis Abeba accusa «Donne e bambini falciati dai razzi dei caccia nemici» Domani prende il via la mediazione del sottosegretario Rino Serri Gli abitanti fuggono mentre colonne di fumo nero si alzano su Adigrat, subito dopo l'attacco dei cacciabombardieri eritrei Qui accanto un reparto di soldati