Senza piangere di Lietta Tornabuoni

Senza piangere Senza piangere il fallimento provvisorio delle riforme discusse dalla commissione Bicamerale non si sono registrati sgomenti popolari, delusioni di massa né pianti collettivi, e si capisce. Sarà ingiusto o magari incivile, ma la revisione della Costituzione ha lasciato indifferenti gli elettori, più o meno divisi in tre grandi gruppi. Al primo gruppo la questione, sentita come astratta e remota, non interessava minimamente. Al secondo gruppo interessava soltanto il punto dei maggiori o minori poteri del Presidente della Repubblica, del presidenzialismo o semipresidenzialismo: punto considerato in genere con qualche timore («e se poi i poteri più netti ed estesi, meno controllati, vengono dati a uno dei soliti tipi?») oppure con la benevolenza acritica caratteristica del confuso antico culto dell'Uomo Forte. Al terzo gruppo era riservata la massima opposizione. Convinti che soltanto una speciale smania per le mode o una fiducia mal riposta nel fatto che basti modificare le leggi per risolvere i problemi possano indurre a ritenere necessario cambiare la Costituzione ogni cinquantanni, questi oppositori sembravano sicuri che il mutamento venisse invece perseguito soltanto per tornaconto politico: di Berlusconi ansioso di variare l'assetto della giustizia per non finire prima o poi in prigione; della maggioranza governativa ansiosa di restare saldamente dove sta il più a lungo possibile, desiderosa di una «stabilità» da ottenere attraverso espedienti legislativi anziché grazie al buongoverno e alla stima degli elettori. Se le aspirazioni erano davvero queste o anche vaga mente simili a queste, sarà una colpa non piangere né rammaricarsi per l'accordo mancato, per il blocco o il rinvio delle riforme costituzio nali? Significherà essere irresponsabili, incoscienti, qualunquisti? Meriterà il disprezzo, il lager, la ghigliottina? TRIPPA Uno dichiara che il fallimento della Bicamerale non è un suicidio né un ictus, ma un assassinio eseguito da un uccisore che ha nome e cognome, Silvio Berlusconi. L'altro lancia un avvertimento ai giovani industriali riuniti a convegno: «Non c'è trippa per gatti». L'altro ancora minaccia di «tornare a fare il Picconatore», o magari il guerrigliero perché «in certi casi pure la guerriglia può diventare necessaria». Chi ascolta quasi si sente male. Ma perché i leader politici fanno così? Perché parlano così? In quale mondo vivono? Cosa credono, di essere spiritosi, di rendersi popolari? Cosa vogliono con simili frasette,^ finire nei titoli, dei giornali (infatti ci finiscono)? Sono strazianti la futilità, la goffaggine, l'elaborazione faticosa e volontaristica e narcisistica di battute del genere. L'idea che per risultare disinvolti e simpatici basti autocitarsi, citare vecchi motti dialettali non più in uso da mezzo secolo o mettere insieme slogan da poliziesco Anni Trenta, suscita ridicolo e anche cattivi pensieri: se fino a ieri il linguaggio dei politici suonava criptico ed elitario come una terminologia di mestiere o un gergo settario, lo sforzo vano di adottare un linguaggio comune ha effetti ancora peggiori, è patetico. Tra politichese e popolarese, magari era meglio il primo. Lietta Tornabuoni

Persone citate: Berlusconi, Silvio Berlusconi