«le nostre vite per Cavallo Pazzo» di Lorenzo Soria

«le nostre vite per Cavallo Pazzo» UN MONUMENTO AL CAPO INDIANO «le nostre vite per Cavallo Pazzo» Inaugurato il volto della statua dei record ULOS ANGELES NA mattina d'estate del 1982, consapevole del fatto che ormai non gli restava più molto da vivere, Korczak Ziolkowski convocò la moglie Ruth e i 10 figli. Erano passati quasi 50 anni da quando Efenry Standing Beiar, capo della tribù dei Lakota, gli aveva detto: «Io e gli altri capi indiani vogliamo che l'uomo bianco sappia che anche l'uomo rosso ha molti eroi». Volevano una risposta al Mt. Rushmore, alla montagna dove l'uomo bianco aveva scolpito nella roccia i faccioni dei presidenti Washington, Jefferson, Lincoln e Roosevelt. E decisero di erigere una scultura in onore di Cavallo Pazzo, dell'astuto capo Sioux che sconfisse e umiliò il Generale Custer a Little Big Horn, in un'altra montagna di granito situata a non più di 30 chilometri da Mt. Rushmore. Una scultura? Beh, forse sarebbe più appropriato chiamarla un colosso, perché solo il volto di Cavallo Pazzo con i capelli al vento è alto come un palazzo di nove piani. Poi ci sono il cavallo che galoppa, il busto a torso nudo e quel braccio lungo come un campo di calcio con l'indice puntato verso le sacre Black Hills. Sono 170 metri per 200, un progetto più grande della Statua della Libertà, delle piramidi di Giza o, per fare un esempio contemporaneo, di quel «Godzilla» che vanta le sue enormi dimensioni attraverso i cartelloni pubblicitari di mezzo mondo. Un progetto iniziato nel 1948 e che Korczak, come lo chiamano tutti, non sarebbe stato in grado di finire. Alla moglie e ai figli riuniti attorno a lui spiegò dunque le virtù di quel principio che in italiano sintetizziamo con il proverbio «chi va piano va sano e va lontano». Poi, aggiuse: «La decisione è solo vostra, ma sappiate che se Cavallo Pazzo si ferma la mia vita sarà stata sprecata. Non posso scolpirlo sulla tomba». Se costruire la più grande scultura mai realizzata nella storia dell'uomo nel mèzzo di un gruppo di colline disabitate e battute da venti impossibili è un segno che la vita ha un proposito, il vecchio Korczak può allora riposare tranquillo. Mercoledì scorso, a 16 anni dalla sua morte e in occasione del cinquantenario del giorno in cui fece scoppiare la prima carica di dinamite e iniziò a scolpire nella roccia il primo di 741 gradini per andare su e giù dalla futura statua, la vedova, i figli e anche qualche nipote hanno aperto un enorme paracadute bianco e hanno finalmente svelato il volto completo di Cavallo Pazzo. Sabato scorso c'è poi stata la «Volksmarch», un rito annuale cui partecipano vicini, curiosi, amici e turisti che quest'anno ha attratto su Thunderhead Mountain oltre 12 mila persone. Ci sono stati discorsi in onore di Cavallo pazzo e di Ziolkowski, lo scultore che ha consumato metà della sua vita esplodendo cariche di dinamite (sinora, otto milioni di tonnellate di granito) e standosene a penzoloni sulle corde da alpinista per rendere onore a un capo indiano. E ci sono state anche le critiche. Questi, si sa, sono tempi in cui è difficile trovare cause assolute e qualcuno ha fatto notare che Cavallo Pazzo non si è mai fatto né fotografare né dipingere: il ritratto di Korczak sarebbe insomma una pura fantasia, un'altra caricatura dell'indiano nobile e fiero. Alcuni nativi americani hanno parlato anche di dissacrazione delle Black Hills del South Dakota. Nessuno ha però osato mettere in dubbio la buona fede e la tenacia di Ziolkowski. Un personaggio, bisogna dire, ben singolare. Nato a Boston e cresciuto negli ambienti artistici della East Coast, venne in¬ vitato poco prima dell'inizio della guerra a dare una mano con il Mt. Rushmore. Si innamorò del West e iniziò ad indossare solo stivali e cappellacci alla John Wayne e a usare come mezzo di trasporto uno splendido palomino bianco. In onore a Cavallo Pazzo e ai Sioux e a tutte le altre tribù indiane né lui né i suoi eredi hanno mai accettato un centesimo dal governo e dai suoi rappresentanti dalla lingua biforcuta. Il progetto va dunque avanti con le donazioni dei privati, con i sette dollari a testa pagati dal milione di visitatori che ogni anno vengono a visitare il «Cultural center» e a vedere a che punto è arrivato il sogno-ossessione di Korczak. La scarsità di risorse finanziarie ha rallentato i lavori ed è per questo che Korczak, prima di morire, ha fatto un appello alla famiglia. Ruth non ha mai avuto «la scintilla di un dubbio», come dice lei, che sarebbe andata avanti ma i figli sì. Tre su 10 non ne hanno mai voluto sapere e quattro di loro a un certo punto si sono ribellati e sono scappati. Ma sono tornati, Casimir con una laurea in ingegneria delle esplosioni, Dawn per amministrare il «Visitor center», Momque dopo aver studiato scultura. «Papà credeva davvero in ciò che faceva», racconta. «E ha fatto sì che ci credessero anche quelli attorno a lui». Dopo 50 anni, Cavallo Pazzo ha dunque finalmente un volto. Un volto immaginario, ma è lì, visibile dal finestrino di un jet di linea, da colline situate a decine di chilometri di distanza. E il resto? E il cavallo che galoppa? E quell'indice grande come un autobus? A questo ritmo, ci vorranno forse altri 50 anni e l'aiuto e la determinazione dei nipoti e dei bisnipoti del vecchio Korczak. Ma Casimir, il figlio primogenito, non se ne fa un problema. «Papà ci ha insegnato che quando si inizia una cosa non la si lascia a metà», dice. Poi, con la calma di chi ha imparato a misurare il tempo nell'ordine dei decenni, aggiunge: «Tutto quello che posso dire è che ogni giorno di lavoro significa che siamo un giorno più vicini alla fine». E se ne va, sotto un vento impossibile, a celebrare il compleanno di una figlia con un'altra esplosione di dinamite. Lorenzo Soria Da un cinquantennio una famiglia scava il colosso nella montagna vicino alle Black Hills II progetto per il colosso dedicato a Cavallo Pazzo e sullo sfondo il volto, appena inaugurato . Qui sopra, il capo indiano

Luoghi citati: Boston, Lincoln, South Dakota, Washington