«Aprì brecce nel grande dell'Est»

«Aprì brecce nel grande dell'Est» Casaroli diplomatico: Budapest e Praga i suoi primi successi, l'incontro coi leader del Cremlino «Aprì brecce nel grande dell'Est» Trent'anni di lavoro e viaggi lungo i crolli del comunismo DAL NOSTRO CORRISPONDENTE «Ambasciatore» di tre papi, «monsignor» Casaroli ha probabilmente dato alla formazione della «Ostpolitik» vaticana un contributo determinante. Egli ha rappresentato non solo la continuità tra le variazioni degli stili e dei temperamenti, ma anche qualcosa di molto più cruciale: la sintesi di tre ispirazioni non certo opposte, ma sicuramente diverse. Fu Giovanni XXIII a dare il via formale alla sua carriera diplomatica, nominandolo sottosegretario della Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari. E' il 1961. A Mosca, nella capitale dell'impero sovietico, è al potere Nikita Krusciov. Agostino Casaroli è il tessitore sottile della tela che porterà a Roma il genero del segretario generale del Pcus, Aleksei Adzhubej. Per un incontro al vertice Vaticano-Mosca bisognerà aspettare ancora molti anni, fino all'arrivo al potere, in Urss, di Mikhail Gorbaciov: quattro segretari generali dopo, due papi dopo. Quasi trent'anni, un terzo di secolo. E il fatto che Giovanni Paolo II non sia riuscito nell'intento - così fortissimamente voluto - di mettere piede sul suolo russo, nemmeno adesso che la Russia è stata cooptata nel mondo occidentale, nemmeno dopo il crollo del regime sovietico, dimostra che il percorso verso una definitiva apertura resta ancora lungo, complesso, irto di spinose questioni non solo teologiche, ma storiche, nazionali, culturali. Spirava forte il vento della guerra fredda lungo quasi tutti i trent'anni in cui Agostino Casa- roli lavorò per aprire brecce nel grande Muro, la cui materializzazione fisica crollò nel 1989. Disse una volta, anni prima, traendo l'impressione acuta dai suoi viaggi nell'Est europeo, di cogliere in quelle realtà «segni di erosione interna». Vedeva lontano e probabilmente non confidava in accelerazioni brusche. Certo non le avrebbe promosse. Preferiva, con Herzen, assecondare la storia e camminare col passo che gli uomini - e anche i leader - sono capaci di compiere. Sapeva approfittare degli spiragli che si aprivano, ma non era un temporeggiatore. Sapeva anche quando si sarebbero aperti e perché. E agiva dove e quando avrebbero dovuto aprirsi. Budapest e Praga, ancora con Giovanni XXIII, furono i suoi primi «successi». Ma Casaroli non avrebbe mai usato questa parola, né la pensava. Erano anni duri e le brecce che si aprivano lasciavano intravedere dolore e tragedia. Paolo VI, diplomatico anch'egli per eccellenza, non poteva non cogliere il valore del difficile dialogo di cui Casaroli era ispiratore. Il primo accordo tra la Chiesa di Roma e un Paese comunista, l'Ungheria, era appena stato siglato. Poi verrà l'apertura di relazioni diplomatiche con Tito e una fittissima spola di viaggi nei Paesi dell'«impero del male», in cui Casaroli, ormai divenuto nel 1967 «ministro degli Esteri» di Papa Montini, si muove con eccezionale destrezza dentro e fuori le regole dell'etichetta diplomatica: Mosca, Cuba, Bulgaria, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca. Altre Ostpolitik sono in movi¬ mento. Lo è quella di Brandt. Il Cremlino di Leonid Breznev sembra cogliere l'occasione e non rifiuta aperture. E, quando viene il momento della firma del trattato sulla non proliferazione nucleare - è il 1971 - monsignor Casaroli andrà al Cremli¬ no a mettere la firma del Vaticano, anche contro le perplessità di coloro che, nella Curia, ritenevano inutile, perfino assurda, quella presenza. Il Papa, è vero, non aveva divisioni da schierare - secondo la sarcastica battuta di Stalin - né atomiche da installare su missili, ma quel viaggio non fu inutile. Anche perché consentì a Casaroli di arrivare a Mosca primo rappresentante del Vaticano dalla Rivoluzione d'Ottobre, di parlare con i leader del Cremlino, di fare un gesto di distensione che non poteva non essere apprezzato da uomini sospettosi e chiusi nella loro stessa fortezza. Un esempio di quella politica della «possibilità e dell'opportunità», come egli stesso definiva la propria metodologia. Giovanni Paolo II lo fece segretario di Stato e cardinale. E la diversità, di stile e di approccio, tra le due personalità, non poteva essere maggiore. Dove, fino a quel momento - era il 1979 - aveva dominato il dialogo, subentrò presto una vera e propria offensiva. Se Casaroli «percepiva» i segni di erosione, il Papa polacco aveva nelle orecchie gli scricchiolii che precedono il crollo, ed era deciso a favorirne l'accelerazione. Se vi furono contrasti non è dato sapere. Si disse che la quarta enciclica di Giovanni Paolo II, la «Slavorum Apostoli» - pubblicata, si noti la tempestività, il 2 luglio 1985, tre mesi dopo l'elezione di Gorbaciov alla carica di Segretario generale del Pcus venne mostrata al cardinale Casaroli solo pochi giorni prima di venire data alle stampe. Eppure quell'enciclica, paradossalmente, fu appunto uno dei momenti di maggiore duttilità e apertura della aiplomazia est-europea dell'attuale Pontefice. A riprova, forse, della complementarità di due metodi, e di due interpretazioni storiche dello sviluppo verso un'unica Europa. Singolare simbolica del destino, il fatto che l'ultimo atto diplomatico di Agostino Casaroli fu la sua partecipazione, a Parigi, nel 1990, all'incontro della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione europea. Era il suggello di un'epoca intera. Giuliette Chiesa Non confidava nelle accelerazioni brusche A Mosca mise la firma del Vaticano sul trattato per la non proliferazione atomica L'accordo fra la Chiesa e l'Ungheria IH Il cardinale Wyszynski, spesso critico nei confronti di Casaroli