A Roma 247 italiani: torneremo di Liliana Madeo
A Roma 247 italiani: torneremo A Roma 247 italiani: torneremo «La situazione non è così drammatica» ROMA. Nessuna lacrima. Neanche i più piccoli si schermiscono davanti alle telecamere e i microfoni puntati. Per i ragazzi più grandi l'avventura è interessantissima: guardano tutto, ascoltano tutti, sono un po' restii a parlare ma solo per timidezza, stordimento. Imbarcati a Gibuti, sono arrivati a Roma a bordo di un 747 dell'Alitalia alle 15,05, accolti da esponenti dell'unità di crisi, della prefettura, della polizia, e da funzionari delle ambasciate straniere. Sul Boeing 247 erano i nostri compatrioti e 94 gli stranieri (svedesi, olandesi, ' svizzeri, tedeschi, etiopi, : eritrei, un cinese). Zainetti, facce stanche ma non allarmate, scarpe da ginnastica a doppia-tripla suola, i minorenni sono una sessantina. Molti, fra gli italiani, non hanno i documenti in regola. Alcuni non hanno nemmeno i soldi per proseguire il viaggio verso qualche parente. Tutti sono di colore, figli di madre eritrea e padre italiano. Come loro, i ragazzi che hanno passaporti di altra nazionalità: tutti accomunati dalla stessa mescolanza dei popoli e delle etnìe che su quel lembo di terra da secoli si consuma. (Con Salomon Malcisi, 15 anni, nazionalità italiana e madre indigena, ci sono 5 amici coeta-. | nei mandati dalle famiglie in salvo. Vanno tutti ospiti di uno zio di Salomon. Lui è un ragazzo benissimo, con orecchino d'argento, accento romanesco, studente di scuole italiane quando è in Italia e della scuola italiana - la più grande nel mondo - quando è ad Asmara: «Dove si studia moltissimo, più che in Italia. In Eritrea dobbiamo imparare inglese, francese, arabo, italiano». Tifo per il fronte eritreo? «La guerra è stata qualcosa di lontano per noi. Hanno colpito un aeroporto e lo hanno pure mancato. Il pilota di quell'aereo, etiope, appena uscito di galera è venuto a bombardarci». I suoi amici? «Credono che questo sia il paese del bengodi. Non sanno che ci sono loro connazionali ai margini della società». ., Scivolano via in silenzio le donne musulmane, con il viso seminascosto dal velo. Parlano malvolentieri le figlie di matrimoni misti, che nulla hanno dei padri bianchi e che tutto conservano della grazia sottile delle loro madri. Spiegano benissimo gli uomini, italiani e stranieri, come della guerra si siano sentite solo le esplosioni all'aeroporto e come non ci siano quegli scontri, quel clima di minaccia continua di cui - hanno scoperto dai giornali italiani che gli sono stati dati sull'aereo - da noi si parla. Sì, la paura molti l'hanno provata, quando hanno pensato che i bombardamenti potessero continuare chiudendo definitivamente l'aeroporto. Alcuni hanno pensato di scappare subito, per mettere in salvo la famiglia. Alcuni si irrigidiscono nel raccontare della madre, dei fratelli, delle persone care che non sono volute partire. «Lì abbiamo tutto. Quella è stata la mia vita. Lì sono nato», dice un uomo anzia¬ no, il viso segnato dal sole e da qualche malattia che lo rende fragile, l'unico della famiglia che è partito. «E' una guerra che non c'è», dice un ragazzo di colore di nazionalità svedese, in Eritrea per vacanza. E' arrabbiatissimo: con la sua ambasciata che lo ha costretto a partire e di cui dice di vergognarsi, con la società civile internazionale che non blocca il conflitto. Unica nota positiva, nelle sue parole, l'aiuto delle autorità diplomatiche italiane. Un elogio che tutti - davvero tutti - esprimono. Insieme con la sicurezza che presto ritorneranno al lavoro, alle loro case. Ne sono una conferma i bagagli con cui viaggiano: leggeri. Liliana Madeo Sopra truppe etiopiche in viaggio verso il ponte del Tigrai. Qui a fianco il premier di Addis Abeba Meles Zenawi
Persone citate: Meles Zenawi, Salomon Malcisi
Luoghi citati: Addis Abeba, Asmara, Eritrea, Gibuti, Italia, Roma
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