Una giornata tra i guerriglieri

Una giornata tra i guerriglieri REPORTAGE Una giornata tra i guerriglieri Passaggio dall'Albania, a dorso d'asino CGOLE DI PATESH HIAMAMI aquila», aveva detto il guerrigliero incontrato più a valle. Dopo sette anni d'emigrazione in Svizzera tornava in questa desolazione per difendere il suo Kosovo, parlava come una persona colta ma il nome di battaglia era stato scelto senza ironia. Adesso, mille metri più a monte, l'ansimare dei temerari che tentano di risalire le gole di Patesh rammenta invece il «chiamami aquila» del povero John Belushi. Le guide ridacchiano, i cavalli usati per l'escursione hanno durissime selle di legno, qualche giornalista preferisce salire a piedi, a chi scrive è toccato un asino. Una bestia meravigliosa. S'arrampica rassegnata ma con ritmo vigoroso, rassicurante, in qualche modo dev'essere contenta del peso che le è toccato in sorte. Il resto del branco quasi si piega sotto i fucili ed i proiettili per lanciarazzi appesi alle groppe. Se nella spianata di fondovalle questi asini parevano reperti di epoche primitive, adesso la primitività s'è trasformata in forza, sembra unire uomini e animali nella stessa caparbia determinazione. La salita è interminabile, dopo due ore la torreggiarne mole dello Shkelzen appare lontana come prima. Questa è la vetta più alta delle Alpi albanesi, sulla cima spicca ancora la scritta dedicata al dittatore Hoxha, nessuno si è più arrampicato fin là per cancellare il gigantesco «Enver» che apostrofa i valligiani. La pista che stiamo percorrendo è quella che i kosovari usano per portare in salvo le famiglie, armarsi e tornare in veste di guerriglieri. «Che tu ci creda o no, l'altra notte ho dormito a Drenica», racconta il capogruppo, un cinquantenne secco e barbuto che non ha inventato soprannomi da guerriero e ad un certo punto ha detto «chiamami come ti pare». Racconta che per un montanaro il viaggio fra le gole di Patesh dura diciotto ore. Si parte al mattino presto per essere in Kosovo quand'è notte fonda: in territorio jugoslavo, altre piste conducono verso i villaggi distrutti dalle forze serbe ed oggi desertificati. «Coi blindati e gli aerei adesso Milosevic pensa di controllare tutto, ma quella è la nostra terra da secoli, ne conosciamo ogni angolo, ogni sentiero. I serbi non avranno scampo». Non suona come una spacconata: se davvero i serbi controllassero l'area «ripulita», se dav- vero facessero così tanta paura, cosa farebbero su questa pista tanti giovani che in tuta mimetica continuano a salire silenziosi impugnando Kalashnikov da tiratori scelti? Eccoli, i guerriglieri dell'«Uck». A vederli sembra che il Kosovo stia per subire dopo cinquant'anni una nuova invasione teutonica: grazie a chissà quale mercante di forniture militari, le vecchie tute mimetiche consegnate ai volontari portano tutte lo stemma dell'esercito tedesco. Dall'altra parte, prima dell'ultima discesa verso la pianura, questi ragazzi riceveranno un altro stemma, più grande, da applicare sulla manica sinistra: un triangolo nero con la rossa aquila sqipetara che allarga le ali anche oltre le montagne. Dicono che in pochi giorni da tutt'Europa più di tremila kosovari abbiamo risposto all'appello dell'Uck. Il misterioso «Esercito di liberazione» ha diffuso anche le prime leggi di guerra. «Ogni kosovaro deve versare alla causa il dieci per cento del suo reddito. Ogni commerciante kosovaro, almeno duemila marchi. Chi non risponde alla mobilitazione sarà giustiziato». Quella che appena tre mesi fa pareva un'armata fantasma adesso lancia proclami come una forza d'occupazione. Da Belgrado, pochi giorni fa «Politika» ha scritto che la spina dorsale del nuovo Uck è costituita da «mujaheddin». Quei guerriglieri afghani, giordano-palestinesi, pakistani che in Bosnia, dopo lo scioglimento della «Muslimanska Brigada», si erano ritirati dalle parti di Maglaj, in attesa di un'altra occasione per difendere l'Islam. Qui non se ne vedono. Ma i portatori avevano avvertito che la salita prima o poi si sarebbe dovuta interrompere «perché lì sopra i reparti dell'Uck non vo gliono giornalisti». I guerriglieri che continuano a sudare e a salire non accettano il colloquio se non per poche battute: «Abbiamo l'ordine perentorio di tacere». C'è un attacco in vista: poche ore dopo, le prime notizie di fonte serba dimostreranno che l'Uck ha lanciato la sua prima vera offensiva. Anche per questo adesso le gole di Patesh sembrano percorse a senso unico. Fino a poche ore fa avevamo incrociato gli ultimi gruppi di rifugiati: ancora donne, qualche bambino. Arrivavano da Voksh, ultimo villaggio a subire ^'attacco dei serbi. Fra gli uomini, uno era giunto per pestare: si chiama Jashi, a Voksh faceva il medico. E' impazzito. «Sì, sono doctor Jashi, sono qui perché stavo a casa... settimane intere chiuso a casa mia con quelli fuori che facevano rumore...». Parla in maniera confusa di un bambino sgozzato, saluta e ripete venti volte «ci vediamo, eh...». Un fratello più giovane l'accompagna per poi tornare a combattere. «Ho visto persone pacifiche, padri di famiglia che hanno lasciato tutto per prendere le armi». Qualche ora più tardi, abbandonata la pista e tornati al villaggio di Tropoje, un incontro inatteso servirà a gettare altra luce su questa bellicosa migrazione. Antonio Sciarra è un sacerdote di Avezzano che da tre anni fa il missionario in Albania. Adesso si materializza qua, fra queste montagne. «Ho deciso di venire a Tropoje per aprire un ambulatorio: presto ce ne sarà bisogno». Il missionario racconta cu un medico kosovaro che dopo anni votati alla non violenza ha mollato moglie e figli e ha cominciato a risalire le gole di Patesh. «Vuole vedere dove prendono le armi? Venga, venga...». La tunica del missionario sembra affondare in un lago di guano: oltre la maleolente distesa si vedono cavalli, giovanotti armati, un capo barbuto che impartisce ordini e una catapecchia da cui continuano ad uscire mitragliatori. Nonostante il sacerdote gli uomini dell'Uck alzano le bocche dei mitra, dicono «andatevene». Chiacchierando con qualche guerrigliero più giovane si riuscirà solo a sapere che il capo dell'Uck porta il nome di battaglia di «Tigre». Nei Balcani, l'epica ha sempre fatto da contraltare alle devastazioni delle realtà. Giuseppe Zaccaria Sulla pista colonne di giovani in tuta mimetica, hanno Kalashnikov. In pochi giorni si sono arruolati in 3 mila Si parte il mattino all'alba: 18 ore di sentieri impervi, a notte fonda si arriva in territorio della Jugoslavia L'Armata clandestina ha emanato leggi Ognuno deve versare U10% del reddito I commercianti duemila marchi Dai Quindici elogi al $ Montenegro, escluso dalle misure punitive $ Una famiglia di profughi che ha passato clandestinamente il confine

Persone citate: Antonio Sciarra, Brigada, Giuseppe Zaccaria, Hoxha, John Belushi, Milosevic, Passaggio