JOE O' CONNOR: L'INDIANO DUBLINESE CONTRO I COWBOY LONDINESI di Ruggero Bianchi

JOE O' CONNOR: L'INDIANO DUBLINESE CONTRO I COWBOY LONDINESI JOE O' CONNOR: L'INDIANO DUBLINESE CONTRO I COWBOY LONDINESI COWBOYS & INDIANS Joe O'Connor Einaudi PP. 270 L. 15.000 O impiegato molto più tempo del consueto per portare a termine la lettura di Cowboys & Indians di Joe O'Connor. L'autore, nato a Dublino nel 1963, è fratello della celebre e controversa cantante rock Sinead, ha studiato all'University College e alla Oxford University e ha già mietuto una serie significativa di premi; ma questo, come dicono gli inglesi, è il suo primo vero full-lenght novel, cioè il suo primo romanzo di ampio respiro. I critici ne sono entusiasti e si sbilanciano in clamorosi accostamenti con taluni grandi narratori del Novecento angloamericano. E, a quanto sembra, i lettori di Oltremanica ne condividono i giudizi lusinghieri. L'Irlanda del resto, da qualche anno a questa parte, va di moda, come dimostrano su un altro versante i numerosi film dedicati di recente ai suoi problemi, a cominciare da Michael Collins. Ma resta il fatto - sia detto con molta umiltà - che ho dovuto ricorrere a tutta la mia pazienza per arrivare al fondo del volume e scoprire come andava a finire. E che adesso mi ritrovo a scriverne senza nemmeno essere convinto di aver colto appie- no le implicazioni del titolo. Cowboys Er Indians, dunque. A prima vista tutto pare facile. Il protagonista Edelie Virago, un punk dublinese sopravvissuto agli Anni Ottanta che emigra a Londra in cerca di fortuna, rinnegando con disinvoltura la propria identità e puntando tutto sull'immagine (a cominciare dall'obsoleta cresta di gallo sulla testa che ne fa per definizione un epigono un po' grottesco di un clima sopraffatto da veloci trasformazioni), è l'«ultimo dei Mohicani» irlandesi. Variante locale e irrimediabilmente fuori moda degli «indiani metropolitani», si scontra con lo pseudolegalismo dei cowboys inglesi e in parti¬ colare londinesi, ormai orientati verso modelli più techno e metallari o, per contrasto, verso un intramontabile (musicalmente parlando) country-western. In realtà, tuttavia, Eddie Virago è il più conservatore di tutti, i più vistosamente e ipocritamente affine al modello thatcheriano. E' lui infatti, più di chiunque altro, a volere far quadrare il mondo con l'immagine mentale che se n'è fatta. E' lui che vorrebbe mettere ordine, anzi imporre il suo ordine e i suoi presunti valori in un ambiente dove persino il rave si è volgarizzato, Sgretolandosi in comportamento di massa. E' lui (con qual- che suo amico) a riempirsi la bocca con i nomi dei grandi d'Irlanda (Yeats, Joyce, Beckett), trasformando al tempo stesso in carta di credito la propria sbandierata origine contadina e proletaria, pur lasciando che siano gli altri a pagare il conto. Ed è ancora lui ad appro¬ priarsi formalmente dei luoghi comuni del neofemminismo per defilarsi nei momenti rischiosi o imbarazzanti e sottrarsi a ogni responsabilità, accreditando l'immagine improbabile del socialista più o meno rivoluzionario che si difende dall'accusa di machismo appellandosi alle teorie (esse pure ormai in parte desuete) dei movimenti di liberazione della donna. Giovane punk frustrato aspirante a una seconda Woodstock e tuttavia meapace di riconoscere la musica che potrebbe dare voce all'Irlanda contemporanea, Eddie Virago vive di menzogne legittimate dalla sua presunta onestà di fondo, da un'ingenuità cattivante costruita artificiosamente su una falsa ùnmagine di sé. Rifiuta tutto quanto dovrebbe accettare e accetta tutto quanto dovrebbe rifiutare. E, naturalmente, da bravo irlandese di marnerà, beve birra e alcol a fiumi, si sbronza e s'impasticca, annusando polverina come qualsiasi vecchio nostalgico degli Anni Sessanta. Cade nel perbenismo con la scusa di combattere le convenzioni. Ridotta al nocciolo, la sostanza di Cowboys & Indians è tutta qui. E chi legge prova un desolante e insopportabile senso di déjà-vu. Ma ù guaio maggiore è che il déjàvu non si riferisce a una cultura underground oggi ritornata prepotentemente di attualità con il rilancio di Kerouac e di Ginsberg. Né, meno ancora, a quello «spirito irlandese» che, al di là delle polemiche e degli scandali, riesce a creare vigorosi best-sellers. Si ha piuttosto l'impressione che ottant'anni di letteratura, a partire almeno dai romanzi di Dahlberg, siano trascorsi invano o addirittu¬ ra non siano mai esistiti. Sicché vien da pensare che questo personaggio antipatico, odioso, bugiardo e lamentoso che aspira soltanto a rendersi gradito e attraente sia una sorta dì irlandese per caso, un homeless di periferia per scelta critica e opportunistica. Né l'aiutano le figure di contorno, irlandesi o inglesi o americane o orientali che siano, peraltro ben caratterizzate. Tra «cowboys» e «indiani» non emergono infatti differenze ideologiche di fondo, ma solo contrasti psicologici ed emotivi. Proprio come non vi sono nel romanzo autentici buoni e autentici cattivi, ma soltanto diverse gradazioni di fallimento, modi differenti di mostrare intolleranza e incomprensione e di sfoggiare cultura o ignoranza. Con la sua cronica e programmata bugiarderia che lo rende fisiologicamente incapace di raccontare la vera storia di se stesso, Eddie Virago si pone insomma come il reggitore di un ordine formale in un singolare Wild West che non cambia mai di tono, s'identifichi esso con Londra o con Dublino, con i verbosi fiancheggiatori dell'Ira o con i più borghesi sostenitori della Thatcher. E viene allora da chiedersi se a essere fuori moda e fuori tempo sia soltanto Eddie Virago, il protagonista, o anche Joe O'Connor, l'autore. Ruggero Bianchi

Luoghi citati: Dublino, Irlanda, Londra