CROS:UNVATE PER LA BOHEME di Giorgio Calcagno

CROS:UNVATE PER LA BOHEME CROS:UNVATE PER LA BOHEME OPERE Charles Cros A cura di GabrieleAldo Bertozzi trad. di Laura Aga-Rossi Mondadori pp. XLVIII-792 L. 24.000 OPO l'abuso che ne ha fatto il Romanticismo, il compianto sulle proprie sventure - in tutte le sue infinite modulazioni: dalla rivendicazione orgogliosa alla patetica autocommiserazione non ha avuto più corso nella poesia francese. Baudelaire ha elevato il guignon, la jella, alle vette metafisiche della disperante ricerca della bellezza e della verità da parte di un Sisifo incalzato dalla fuggevolezza del tempo umano; Rimbaud ha bruciato, e non solo metaforicamente, anche le scorie della sua frenetica stagione all'inferno; Corbière ha addirittura sbeffeggiato Lamartine e tutti i consimili dispensatoli di «lacrime scritte». Non per questo il destino ha smesso di accanirsi sui poeti. In questo campo, anzi, un personaggio come Charles Cros, che dell'età postromantica ha vissuto tutte le illusioni e tutte le inquietudini, può vantare una sorta di primato. E non solo come poeta. Cros era infatti uno di quegli ingegni fertili e irrequieti che, divorati da una continua sete di conoscenza e insofferenti di qualunque disciplina, hanno bisogno di esprimersi nei campi più disparati: inventori e sperimentatori più che scienziati e artisti, disperdono in tanti rivoli la loro esuberanza intellettuale e sono dovunque malcompresi, derisi o, al massimo, guardati con sussieguo e sospetto come degli estrosi dilettanti. Tutto, in Cros, è all'insegna della febbrile versatilità: una adolescenza dedita all'apprendimento delle lingue antiche, un breve passaggio attraverso gli studi di medicina e poi, parallelamente alla poesia e all'animazione di avanguardie letterarie, la matematica, la musica, la fisica, la chimica, la fisiologia, l'astronomia. Con la stessa mediocre fortuna affastella intuizioni scientifiche e bizzarri esperimenti, geniali anticipa zioni e concezioni visionarie. Riesce a produrre per sintesi delle pietre preziose e, al fine di accertare l'esistenza di qualche forma di vita extraterrestre, studia un sistema di comunicazione tra gli astri; prima di perdere per ragioni disciplinari un posto di insegnante all'Istituto dei Sordomuti, riflette sui principi e sulle tecniche della dattilologia e della lettura labiale; conduce ardite e significative ricerche sulla telefonia e sulla fotografia a colori; elabora un progetto di telegrafo automatico e una «teoria meccanica della percezione, del pensiero e della reazione». Ma a nulla gli vale presentare i suoi prototipi all'Esposizione universale o mandare memorie all'Accademia delle Scienze. I plichi finiscono nelle mani di una sezione incompetente oppure, com'è accaduto nel 1877 per quello che conteneva la descrizione del fonografo, giacciono dimenticati in un cassetto il tempo necessario perché Edison possa brevettare un'analoga invenzione. Dove poi non riesce il destino avverso, provvede il carattere spigoloso del personaggio, la sua incostanza e quella che è stata definita la «tristezza un poco altera della sua cavalleria scientifica», e che, più prosaicamente, si può chiamare sovrano disdegno delle esigenze della vita pratica e rifiuto dello sfruttamento economico del proprio ingegno. Come poeta non ha avuto migliore fortuna. Emarginato dai parnassiani, animatore dei più vivaci ed effimeri gruppi letterari tra Secondo Impero e Terza Repubblica - Zutistes, Vilains Bonshommes, NouvellesAthènes, Hydropates, ChatNoir, ecc. e del salotto di Nina de Villars, con la quale vive anche una intensa e burrascosa relazione, nel '73 è costretto a pubblicare a proprie spese II Cofanetto di sandalo (l'altro suo libro, La collana di artìgli, uscirà postumo); e se una qualche notorietà riesce a raggiungere, è quella riduttiva e abbastanza mortificante di umorista procuratagli da certi suoi brevi e bislacchi monologhi che il celebre attore Coquelin Cadet era riuscito a portare al successo. Forse, per quel che valgono queste misurazioni e classifiche, grande poeta non è stato; co di Caproni, che Mengaldo ca di smascherare con tanto ntiglio nell'ultima parte delpera, non è fine a se stesso. anto più la parola entra in bi ccio con il verso, la poe si rastrema, la stessa usica si fa atonale, tanto ù forte è il nocciolo duro la domanda che sotten Ed è la domanda sulrizzonte ultimo delomo, al quale il poeta n riesce a sotrsi, anche ando, per afferarlo, deve serrsi della negazio. La sua «patoologia» può ane volgersi in teologia», come li stesso la defisce, non può anllarsi. «Uno dei nti, anch'io / Un bero fulminato / lla fuga di Dio», cono gli ultimi e versi di «Res missa», la concluone dell'opera. Giorgio Calcagno