NEL PURGATORIO DI CAPRONI ALBERO FULMINATO DALLA FUGA DI DIO di Giorgio Calcagno

NEL PURGATORIO DI CAPRONI ALBERO FULMINATO DALLA FUGA DI DIO NEL PURGATORIO DI CAPRONI ALBERO FULMINATO DALLA FUGA DI DIO I Meridiani consacrano una fra le maggiori voci del dopo-Montale IORGIO Caproni morì una mattina d'inverno, il 22 gennaio 1990: nell'ora più fredda, evocata tante volte dalla sua poesia. Sul comodino c'era il libro che negli ultimi tempi aveva più amato, il Purgatorio. Pochi mesi prima il settantottenne poeta era voluto andare a Ravenna, per leggerne il terzo canto sulla tomba di Dante. «Leggo il Purgatorio - scrisse in quei giorni - per riposarmi, e mi riposa davvero quel senso continuo di alba, gli straordinari incontri con Casella, con Manfredi». Quella mattina del 22 gennaio il libro fu trovato aperto al primo canto, dal verso 115: «L'alba vinceva l'ora mattutina / che fuggia innanzi, sì che di lontano / conobbi il tremolar de la marina». Queste notizie concludono la preziosa cronologia che Adele Dei ha curato per il Meridiano Mondadori sul poeta e ne riassumono la vita: c'è Casella, il musicista dell'amoroso canto; c'è la marina, il ricordo delle sue città; c'è l'alba, l'ora più incerta di futuro. Ma soprattutto c'è il Purgatorio, il luogo che sembra più presente, quasi determinante, nell'opera di Caproni: luogo latteo, come l'approdo della funicolare, nebbioso, come la montagna della Val Trebbia battuta dal Franco cacciatore. E «purgatorio» è una delle parole che ricorrono con maggior peso nell'acuminato saggio introduttivo di Pier Vincenzo Mengaldo. Purgatorio che investe l'intero mondo di Caproni, i suoi stessi affetti, le memorie: comprese, per il critico, la sua Genova e la sua Livorno, solo in apparenza descritte con tocchi realistici; in realtà «così indimenticabilmente vive proprio perché luoghi purgatoriali». Purgatoriale è la stessa vicenda letteraria di Caproni, che sembra aver peregrinato tanti anni per le cornici più umili del monte. «Oggi - rileva Mengaldo non c'è dubbio per qualunque persona sensata che Caproni sia tra i massimi e più origmali poeti del dopo-Montale. Ma a lungo la sua è stata una storia subacquea, tanto da non consentirgli neppure l'ingresso nei "Lirici nuovi" di Anceschi (1943)». Nel «subacqueo» a essere giusti, il futuro autore dell'«Idrometra» sembrava trovarsi bene: così schivo di sé, convinto - o era solo ironia? - che i grandi poeti fossero i minori. Nemico sempre del pronome io, tanto rimosso da costringerlo a inventare personaggi fittizi, come il viaggiatore cerimonioso, per esprimere il proprio pensiero. Ma la forza della poesia è tale che anche l'uomo pattinante sul fondo dell'acqua a un certo punto risale alla superficie, guizzante come il delfino cui ha affidato una delle sue immagini più affilate. E mentre tante glorie effimere si inabissano, la poesia di Caproni vince la sfida del tempo. Il bel volume che oggi ce la mette a disposizione tutta, compresi i versi dispersi e tanti mediti di cristallina durezza rimasti fra le sue carte, ne è la più rassicurante prova. E Caproni, con queste quasi duemila pagine, può ben fare il suo ingresso in Paradiso. Libro da leggere contemporaneamente su tre piani, per capire l'autore. La critica si intreccia con la biografia, e la biografia con la poesia. Fondamentale, nell'analisi di Mengaldo, il rapporto con la musica, che detta al poeta i settenari delle canzonette e gli endecasillabi dei sonetti. Una musica non corriva, che sfugge aUe trappole del melodico, anche quando appare - quasi per provocazione - cantabile: spezzata com'è dalle cesure, contrastata nel suo stesso ritmo da una continua dissociazione fra suono e senso, procedente a zig zag. Ma una musica sempre dominante, frutto di una perizia tecnica in cui Caproni è insuperato maestro, nel Novecento italiano. Perché? Perché in Caproni, co¬ me ci spiega Adele Dei, poesia musica nascono insieme: fin da quando il tredicenne allievo dell'Istituto musicale Giuseppe Verdi a Genova, impegnato a comporre corali a quattro voci, pensò di sostituire i versi del Tasso o del Rinuccini con i propri. «Poi come confessò il poeta - il musicista è caduto ed è rimasto il paroliere, ma non è un caso che tutto questo sia accaduto a Genova, città di continua musicalità per il suo vento». E a Genova Caproni trova le prime figure femminili, presenza costante, e musicale, di tutta la sua poesia: «Sono donne che sanno / così bene di mare», come scrive nei perfetti settenari di «Finzioni». «Finzione» è un'altra delle figure chiave scelte da Mengaldo, per sottolineare il continuo rapporto del poeta con la realtà, e la sua continua smentita nella poesia. Gli oggetti del reale, in questo «Dante degli ascensori», sono tanto necessari quanto illusori, presenti solo per essere svalutati. La terza parola chiave è «metafisica» e Mengaldo naturalmente non può evitarla; anche se non gli piace la definizione di «ontologia negativa», coniata per il poeta da Calvino. Caproni non è un poeta-filosofo, ci avverte, «il suo nichilismo ha il minimo di L'OPERA IN VERSI Giorgio Caproni A cura di Luca Zuliani Introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo Cronologia e bibliografia a cura di Adele Dei Meridiani Mondadori pp. I88S. L. 85.000 elaborazione concettuale e non matte a contrasto un pensiero e un'esistenza». Forse è vero; ma il gioco di Caproni, che Mengaldo cerca di smascherare con tanto puntiglio nell'ultima parte dell'opera, non è fine a se stesso. Quanto più la parola entra in bi sticcio con il verso, la poesia si rastrema, la stessa musica si fa atonale, tanto più forte è il nocciolo duro della domanda che sottende. Ed è la domanda sull'orizzonte ultimo dell'uomo, al quale il poeta non riesce a sottrarsi, anche quando, per affermarlo, deve servirsi della negazione. La sua «patoteologia» può anche volgersi in «ateologia», come egli stesso la definisce, non può annullarsi. «Uno dei tanti, anch'io / Un albero fulminato / dalla fuga di Dio», dicono gli ultimi tre versi di «Res amissa», la conclusione dell'opera. Giorgio Calcagno

Luoghi citati: Casella, Genova, Livorno, Ravenna