Caselli: «Cambiamo le regole per i processi a Cosa nostra»

Caselli: «Cambiamo le regole per i processi a Cosa nostra» «Bisogna alzare il tetto della carcerazione preventiva in primo grado» Caselli: «Cambiamo le regole per i processi a Cosa nostra» LA PROPOSTA DEL PROCURATORE DI PALERMO LA sentenza di Firenze è un avvenimento che dovrebbe farci riflettere tutti perché dimostra che si può vincere contro la mafia se si crea un clima di collaborazione e di fiducia nell'attività della magistratura e degli investigatori. Il lavoro svolto è stato davvero stupendo». Giancarlo Caselli non nasconde la soddisfazione per la conclusione dell'inchiesta sulle stragi del '93 e sottolinea la «perfetta sintonia» instauratasi coi colleghi della procura fiorentina. Dottor Caselli, allora le stragi furono davvero mafiose? «Noi non abbiamo mai avuto dubbi. La sentenza di sabato, se ve ne fosse bisogno, conferma il ruolo centrale della mafia palermitana nella strategia globale dei vari poteri criminali. Di qui la necessità di concentrare sul distretto di Palermo sforzi e risorse». Ciò vuol dire che, dopo le condanne per la direzione logistica di Cosa nostra, si dovrà cercare di smascherare i suggeritori? «Da più parti è stata sottolineata la finalità eversiva delle stragi del 1992 e del '93. Credo sia sotto gli occhi di tutti, di tutti quelli che co noscono il problema, come Cosa nostra all'inizio degli Anni Novanta, sia scesa in campo pesantemen te, più che negli anni passati della sua esistenza. L'ipotesi che ciò sia avvenuto di concerto con l'iniziati va di diversi poteri criminali si fa sempre più attendibile». Siamo ancora al «grande vechio»? «Nessuna dietrologia. Stiamo parlando di fatti e mi sembra storicamente innegabile che alcuni passaggi della nostra vita nazionale da Portella delle Ginestre al 1993 si siano intrecciati con avvenimenti oscuri, puntellati da stragi, violenze, delitti eccellenti. In tali avvenimenti, messi in atto nel tentativo di far deragliare la nostra democrazia, spesso la criminalità mafiosa ha svolto un molo preciso». E perciò? «Vengo e mi spiego, ma mi conceda una premessa. La lunga marcia verso la piena democrazia, malgrado tutto, è andata avanti e quindi i sacrifici degli uomini e delle donne che si sono opposti al malaffare non sono stati vani. Però, posto che Cosa nostra è tutt'altro che sconfitta, nulla ci vieta di temere che certe tentazioni del passato - un passato peraltro ancora recentissimo non si ripresentino in tutta la loro pericolosità. Ecco perché è più che mai necessario chiarire esattamente i contorni della strategia eversiva che ha caratterizzato l'attività di poteri criminali ancora non tutti noti. E ciò per evitare di trascinarci - com'è avvenuto in passato - una malattia che può indebolire l'intero corpo della società». Il suo aggiunto, Guido Lo Forte, definisce le stragi del '93 «stabilizzanti». Ciò presuppone che Cosa nostra abbia avuto punti di riferimento politico istituzionali. «E' una formula suggestiva. Se vogliamo restare ancorati ai fatti, però, basti soltanto ricordare che Cosa nostra si è distinta per aver svolto un ruolo di conservazione». Ma le indagini sui mandanti occulti della stragi hanno offerto già un quadro politico? «Non posso dire nulla in proposito, per ovvi motivi. Approfittiamo di questo primo successo per crescere ancora. Mi auguro che la sentenza di Firenze faccia prendere consapevolezza a tutti dell'importanza della lotta alla mafia che è anche lotta per la difesa dell'ordine democratico. Per questo i magistrati che vi si dedicano avrebbero bisogno di consenso e non di essere calunniati o definiti assassini». Procuratore, c'è qualche motivo di rammarico nella sentenza di sabato? «Certo. Penso agli ergastolani in libertà. Quella della cattura dei latitanti, dei vari Provenzano, Messina Denaro, è ancora mia priorità su cui lavorare. E poi, una considera zione». Quale? «I processi per le stragi, quella di Capaci e quelle del '93, in un certo senso hanno potuto godere - giustamente visti la loro gravità e il terribile impatto che ebbero presso l'opinione pubblica - di una sorta di corsia preferenziale che ne ha accelerato il cammino. Ma tanti processi, noti e meno noti ma tutti ugualmente importanti, languono in Sicilia, in Calabria, in Campania. Il problema dei processi a gabbie vuote, ben rappresentato per esempio da un recente saggio del collega Salvatore Boemi, è la nuova emergenza. Bisogna intervenire per scongiurare le scarcerazioni per decorrenza dei termini». Sta chiedendo una riforma per alzare il tetto dei termini della carcerazione preventiva? «I tempi del processo si dilatano sempre di più: sappiamo gli effetti del "513", ora interviene anche la riforma del "238" (che impedisce di acquisire i verbali di interrogatori di altri dibattimenti, ndr). Lo sciopero degli avvocati, per certi profili sacrosanto viste le cose che non vanno, dilata il dibattimento, tanto da rendere forse auspicabile, per i processi di mafia, una qualche forma di autoregolamentazione o disciplina». Insomma, gli imputati vanno a casa prima della sentenza e poi valli a riprendere. «Ogni scarcerazione per scadenza dei termini, nei processi di mafia, è una sconfitta». Qualche rimedio? «Il termine di durata per i tre gradi di giudizio è di nove anni. Si potrebbe tenerlo invariato, ma alzare i tre anni del primo grado. Un'altra cosa da fare subito sarebbe la costituzione dei tribunali distrettuali, cioè una organizzazione giudicante parallela alla magistratura inquirente, come nel disegno di Giovanni Falcone. Ciò permetterebbe di razionalizzare le forze senza creare dispersione. Sarebbe più facile concentrare le risorse che oggi si frantumano nei mille rivoli dei Tribunali territoriali non sempre in buona salute. Anzi, gli organici di questi uffici giudiziari andrebbero subito potenziati, in ogni caso». Dottor Caselli, il pentitismo mafioso sembra giunto al capolinea. Non si registra più, neppure tra gli addetti ai lavori, il clima favorevole di un tempo. «Sono stati e continuano ad essere utili. I pentiti sono come il bisturi che è uno strumento delicatissimo e perciò deve essere usato con cautela e professionalità. Ma è insostituibile. La mafia è un cancro e l'operazione chirurgica è necessaria. Ci vuole tanta malafede o ritardo culturale per sostenere che il tumore può essere curato con una tisana». Un'ultima domanda, procuratore. Quando si discute di «soluzione politica» per la corruzione si pensa sempre ai magistrati di Milano. Forse non si tiene conto che esiste una diffusa corruzione mafiosa per la quale risulterebbe impraticabile per esempio l'amnistia. Lei che dice? «Non mi faccia dire cose che potrebbero essere fraintese. La politica faccia ciò che ritiene utile al bene comune. Ma tenga anche conto di ogni possibile ricaduta, a Milano come a Palermo». Francesco La Licata a Troppi processi languono in Sicilia Calabria e Campania Il problema dei dibattimenti a gabbie vuote è la nuova emergenza: per questo occorre una qualche forma di disciplina per la piovra U Mi auguro che la sentenza di Firenze convinca tutti che combattere la mafia significa anche lottare per difendere l'ordine democratico del Paese ipip Vigili del fuoco e uomini del soccorso al lavoro la sera del 27 maggio 1993, quando esplose la bomba in via dei Georgofili a Firenze. A destra, il procuratore capo di Palermo, Giancarlo Caselli

Persone citate: Caselli, Di Palermo, Francesco La Licata, Giancarlo Caselli, Giovanni Falcone, Guido Lo Forte, Portella, Provenzano, Salvatore Boemi