La diplomazia del tortellino

La diplomazia del tortellino ILPALAZZO La diplomazia del tortellino dissimo e rinomato mangiatore. Inoltre adora la cucina italiana e si dannerebbe per una scodellona di tortellini - bianchi, rossi, asciutti, in brodo. Più che una passione, la sua ha tutta l'aria di essere una autentica debolezza. Ne esistono, del resto, di peggiori. Va bene anche, nell'era dell'Ulivo, l'idolatria del tortellino, soggetto commestibile autonomo ormai degno di sostituire negli emblemi politici i vecchi scudi, falci, garofani, martelli e fiammelle. Due anni fa, complici i tortellini, Veltroni ha cenato per la prima volta con Fini. Mentre D'Alema, che durante una lezione a un liceo di Bologna ha richiesto e ottenuto un pacco di tortellini accanto a sé come «simbolo del volontariato politico», ne ha fatto addirittura un espediente di oratoria congressuale, oltre che un pretesto per scambi di cortesie con Indro Montanelli. Bene dunque Kohl e il culto del tortellino. E però, senza farla troppo lunga, anzi riconoscendo a Prodi (cui, neanche a farlo apposta, nel Pippo Chennedy avevano infilato un tortellino tipo anello piscatorio) un'indubbia efficacia comunicativa, di solito neppure troppo smodata, beh, insomma, uno si potrebbe pure chiedere se per caso non ci sta dando troppo dentro con la diplomazia del tortellino. Se non stia un po' esagerando, Prodi, a prendere il cancelliere per la gola letteralmente - trascinandolo come se fosse la cosa più normale in modeste e straordinarie trattorie campagnole per ciclisti ghiottoni, trasformandole in rustiche sedi di vertici, in nuovi incredibili luoghi di gastronomia cerimoniale, istituzionale, internazionale. Così, dopo il summit del gennaio scorso da «Fortunato al Pantheon», l'altra sera le relazioni bilaterali tra Italia e Germania hanno avuto come teatro «La Grotta di Negri A.», della signora Bruna, a Mongardino, dalle parti di Pontecchio Marconi, bartrattoria sulla strada, tovaglie rosa, sedie di plastica, arrivo dei presidenti e del loro staff in autobus, fra poliziotti, curiosi, telecamere e giornalisti che oltre ad annotarsi il fatidico menù a base di tortellini e tortelloni, tagliate e tagliatelle, crespelle e mortadelle, hanno avuto di che discutere sulla grandezza della forma di parmigiano donata a Kohl. Ora: sarà furbizia, sarà gentilezza, sarà distacco dalle forme, emulazione clintoniana, al limite snobismo, ma come tutte le manifestazioni del potere anche la diplomazia della mortadella è un'arma a doppio taglio. Nel senso che funziona finché funziona. Quando invece succede qualcosa - e qualcosa di imprevedibilmente tra-"-, gico, come il disastro ferroviario di Eschede, con relativa ansia dell'ospite e conseguente sospensione del vertice - beh, a quel punto da mangereccia, villereccia e allegramente informale, l'immagine di quei potenti isolati in una trattoria di campagna diventa eccessiva, bizzarra, straniante. Classica situazione sfuggita di mano. E' ovvio che nelle relazioni internazionali non sono questi i problemi più importanti. Né si tratta di ripristinare il grigiore protocollare di Andreotti o le magnificenze pseudo-regali di Berlusconi (con tanto di incitamenti amorosi ai Capi di Stato alla reggia di Caserta). Prendere esempio, semmai, da Ciampi che in America ha rifiutato di mettersi il cappellone da cow-boy. Proprio perché è molto meno mortadella di quel che a volte rischi di apparire, Prodi potrebbe farci un pensierino - prima di regalare l'olietto di oliva pure a Blair. Filippo Ceccarelli Bili |

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