Al bazar delie armi, oltre il confine

Al bazar delie armi, oltre il confine REPORTAGE TRA RIFUGIATI E RIBELLI Al bazar delie armi, oltre il confine In Albania una terra di nessuno in mano ai guerriglieri TROPOJE DAL NOSTRO INVIATO Dal nulla verso il nulla traversando una cortina di montagne scure. Il percorso degli ultimi rifugiati dal Kosovo si consuma così, sotto un sole assassino, in un paesaggio che serve solo a dimostrare come ad una desolazione possa seguirne un'altra ancora più povera, profonda, appartata. Questo è Tropoje, prima meta della fuga: un villaggio di confine dai muri lebbrosi che fino a tre mesi fa vivacchiava sui traffici e oggi trasforma l'isolamento in chiave di forza, si esalta in un'economia folle. Mai visto prima, in nessun angolo di mondo, un così frenetico, pubblico, spudorato mercato d'armi. Ce n'è di tutti i tipi: vecchi Kalashnikov di produzione albanese, mitragliatrici leggere made in China, pistole simil-Beretta, bombe e mine di ogni forma e dimensione. Sono allineate su bancarelle come in un mercatino rionale, e dove gli standisti mancano la merce è esposta per terra su teli di fortuna. La guerra temuta, la guerriglia in atto raggrumano in un battibaleno il peggio che l'Albania possa offrire. Per raggiungere questo altipiano, questa rocca naturale circondata da montagne altissime, dalla capitale occorrono circa dodici ore. Gli ultimi 90 chilometri si srotolano su una stradina sterrata che s'aggrappa ai fianchi delle montagne per non vedere gli strapiombi. Sul percorso i rapinatori armati si alternano a quelli che pretendono due dollari per un litro di benzina. Eppure quest'oggi Topoje è invasa da vecchie e nuove «Mercedes» targate Tirana coi cofani ancora aperti. Chiunque avesse armi da vendere adesso è qua, piccoli e grandi mafiosi rovesciano sulla valle del Drin quanto avevano potuto mettere assieme in due anni di rivolta popolare, assalti alle caserme, scontri fra bande Un mitra locale può costare anche 50 marchi, un'inezia, i vecchi elmetti dell'armata popolare, quelli color sabbia dalla strana foggia orientale, li porti via con un pacchetto di sigarette. Si tratta sempre di una vendita, diciamo così, facilitata. I prezzi sono quasi di saldo, i milioni di dollari della diaspora albanese assicureranno rifornimenti più massicci. La polizia, intanto, sta lontana: in un angolo della piazza che chiude il mercato, si rinserra prudente nei furgoni che furono dono del governo italiano. «Il flusso dei rifugiati sta rallentando», ci aveva raccontato poco prima a Bajran Curri, capoluogo della provincia, il dott. Gian Mejer, della Croce Rossa Internazionale. «L'altra sera ne avevamo censiti 7400, con oggi dovremmo essere intorno agli 8000». Ottomila donne, o anziani, oppure bambini poiché gli uomini validi continuano a compiere una sorta di rito: arri- vano, depositano la famiglia dove si può, comprano un'arma e tornano indietro. Se ne vedevano ancora, ieri, soprattutto se le guide accettavano di condurti fino a una specie di balconata che guarda la pianura del Kosovo dall'alto, quasi a perpendicolo, schiacciando le prospettive. A segnare il limite del territorio jugoslavo ci sono cippi bian¬ chi ben distanziati, sull'orizzonte si vede ancora levarsi il fumo delle case. Nel tappeto scuro della macchia di montagna si nota il tracciato più chiaro di sentieri che ancora adesso piccoli gruppi stanno risalendo, quasi sempre con la scorta degli asini. Si chiama «Passo di Patesh» la gola che l'intera Albania vorrebbe promuovere a Termopili dei fratelli kosovari. Dal sacrificio di oggi deve partire la riscossa, da Tirana giornali e partiti s'inseguono nell'annunciare emergenze, mobilitazioni spontanee, manovre di strani riservisti. L'unico segno di attività prebellica per il momento sembra consistere nella riattivazione meglio, la ripulitura - di quei piccoli bunker di cui l'Albania è disseminata, quelli in cui secondo il delirio di Enver Hoxha l'intera popolazione avrebbe potuto trovare ricovero. Arrampicandoci lungo le montagne, qualche ora fa dalle parti di Kukes avevamo notato in effetti un reparto dell'esercito schierato, anzi avvitato al terreno. Erano una quindicina di carri la cui origine cinese era testimoniata da spessi strati di ruggine e da una propensione all'attacco pari alle possibilità di movimento. Ma non sono certo i resti dell'armata quelli su cui l'Albania spera. Sì, qualche vecchio cannone ò puntato verso la pianura jugoslava, in caso di scontro qualche reparto potrebbe anche dire la sua. Ma la «guerra di liberazione», la guerriglia (o in versione serba gli «atti di terrorismo») paiono interamente appaltati ai misteriosi incursori deH'«Uck», il cosiddetto Esercito di liberazione del Kosovo. Questa valle è una sorta di terra di nessuno dove l'Uck si comporta da padrone. Sono i guerriglieri - adesso sempre più aggressivi, sempre più propensi a mostrarsi - quelli che dicono al cameraman «gira quella scena, non riprendere quell'altra» (il mercato d'armi, soprattutto). Sempre loro, a bloccarti improvvisamente su una pista per intimare «da qui non si passa». Ancora e sempre loro a suggerire le prospettive da cui, in campo lungo, le distruzioni inflitte alla provincia di Drenica si possono ancora riprendere. Per pensare di rifugiarsi qui, di passare dalle squallide pianure del Kosovo alle poverissime Alpi albanesi bisogna essere spinti da un terrore inarrestabile. Chiunque dovesse combattere per questa distesa di sterpaglie inframmezzate da tuguri, potrebbe farlo solo per difendere se stesso. Eppure ieri anche il giovane e colto interprete che ci aveva accompagnato fin qui da Tirana, guardando dai monti quella pianura desolata aveva gli occhi lucidi e, con fede un po' patetica, dichiarava: «Sa perché sconfiggeremo i serbi? Perché noi li guardiamo dall'alto...». Giuseppe Zaccaria A Tropoje allineati su bancarelle mitra russi e cinesi, mine pistole e bombe La polizia sta in disparte, chiusa nei furgoni, e fìnge di non vedere Soldati americani inquadrati nella forza Onu in Macedonia perlustrano il confine, dove ieri le forze serbe hanno ucciso due infiltrati

Persone citate: Enver Hoxha, Gian Mejer, Giuseppe Zaccaria, Kukes