Alla frontiera della quarta guerra

Alla frontiera della quarta guerra Alla frontiera della quarta guerra Sui monti dove i due eserciti si fronteggiano dal '41 HHÉH LA MICCIA ACCESA FRONTIERA INDO-PACHISTANA DAL NOSTRO INVIATO Con il suo bastoncino di bambù, il giovane generale Heidar Khan taglia l'aria e punta alla collina che ci sta di fronte: ha 40 anni, è secco, magro, e guarda con odio le montagne che s'arrampicano verso il cielo. «Quella, è India». Poi pesta il piede sul terrapieno dove stiamo, protetti da un muraglione di sacchetti di sabbia: «E questo, questo è Pakistan». La frontiera che non si vede divide due mondi, qua i musulmani, di là, a Sud, gli hindu. «Loro, in questo momento, ci stanno sicuramente osservando - dice il generale - potrebbero anche spararci addosso», e abbassa la testa istintivamente. Le guerre cominciano così, e qui basta niente a far scoppiare un'altra guerra, che poi sarebbe la quarta tra l'India e il Pakistan.. «Due settimane fa ci hanno anche provato; ammassavano gente», aggiunge Heidar Khan. Poi è arrivata la Bomba. Questa quarta, sarebbe allora una guerra nucleare. E questo è il Kashmir, la polveriera del Duemila. Nel silenzio assoluto delle montagne, il paesaggio ha una grandiosa e straordinaria bellezza alpina. La vallata del Gehlum si apre sotto costoni che superano i 3000 metri, e le piante verdi di mango e le acacie cedono progressivamente ai pini e agli eucalipti. Per arrivare a quest'ultimo posto di osservazione, a un centinaio di metri dagli indiani di fronte a noi, il viaggio da Islamabad è una tappa che nemmeno Coppi avrebbe vinto, lungo una strada di terriccio e di fango che per lunghi tratti è precipitata nel vuoto. Si va a passo d'uomo, sobbalzando e maledicendo l'abisso. Ma a Islamabad c'erano 43 gradi, e qui, a più di 1000 metri di altitudine, siamo soltanto a 14 gradi. «Per questo, io dico che è il paradiso», sorride il generale. I mortai non sorridono. I soldati hanno divise color kaki e grandi pennacchi rossi, la memoria dell'impero britannico accompagna la vivezza coloniale delle loro uniformi. Gli uomini scattano come soldatini di piombo, e nella mensa ufficiali ci sono trofei macchiati di polvere che ancora pagano il loro pegno all'antico amore per il Raj di Sua Maestà Imperiale. Ma quando Sua Maestà partì da queste frontiere, ed era il 15 agosto del '47, lasciò un'immensa e dispe rante frittata dietro i reggimenti che al suono di cornamuse e di tamburi portavano via l'Union Jack. La spartizione dell'India in due Stati, uno hindu e l'altro mu sulmano, era stata una decisione che Lord Mountbatten e Gandhi e Nehru avevano dovuto accettare a forza, dopo che il fanatismo confessionalista di Mohammed Ah Jin nah aveva aperto un fronte di rottura dentro il quale i due gruppi religiosi si erano abbandonati a mas sacri orrendi; il sangue aveva soffocato Delhi e Calcutta. Nacque l'India e nacque il Pakistan, ma nacquero insieme con le drammatiche incertezze di una frontiera tracciata a fatica, traversata da 8 milioni di profughi musulmani che da Sud andavano a Nord, e da 5 mi lioni di sikh e di hindu che incro davano disperatamente in direzio ne opposta le strade del Punjab. Ci furono ancora massacri che nessuno ha dimenticato, treni tra sformati in macelli ambulanti e in teri villaggi sepolti sotto il fuoco. 1 morti ammazzati furono 5 milioni. La spartizione imponeva un esodo di popoli ormai nemici, ma prima ancora imponeva scelte che l'odio religioso non avrebbe mai perdonato. Erano scelte non soltanto in- dividuali, degli uomini, delle loro famiglie, di interi nuclei tribali; dovevano scegliere anche i Maharaja che reggevano quell'immenso reticolo di poteri e principati estesi sull'intero continente. Fino a quando il Raj aveva governato il mondo coloniale, la sottomissione dei 500 principi alla Corona di Londra era stata un dovere che il tempo, la diplomazia suadente, e la forza dei reggimenti britannici avevano imposto fino alle montagne dell'Afghanistan; ora bisognava stare da una parte o dall'altra, e non sempre fu facile. Vennero dettate regole, c sancite norme di principio, tentando di piegare all'obbligo dell'omogeneità religiosa terre e tradizioni di secolare multiconfessionalismo; il Punjab e il Bengala furono i casi più drammatici, ma vennero risolti in qualche modo. Restò invece irrisolto il Kashmir, territorio anch'esso di frontiera tra i due Stati che nascevano. «Vede quei baraccamenti?», chiede il generale, e con la canna mostra i dormitori dei suoi soldati lungo il pendìo della montagna. «Quelli erano le caserme degli uomini del principe Hari Singh». Il principe era hindu, discendente della famiglia reale di Gulab Singh Dogra che nel 1846 Londra aveva graziosamente riconosciuto come Maharaja delle terre delle montagne allungate a Nord-Ovest del Punjab, esilio dorato di tutti i residenti britannici nei mesi soffocanti della stagione del monsone. Il principe era di religione hindu, ma i suoi sudditi - a stragrande maggioranza - erano musulmani: se Hari Singh avesse scelto il Pakistan, avrebbe dovuto abdicare; se avesse scelto l'India, si sarebbe scontrato con il suo popolo. Furono giorni difficili, tentato dalle lusinghe di Delhi, spronato dalle urgenze di Jinnah. Il Pakistan non seppe, e non volle, avere pazienza. Temendo un tradimento di quello che considerava un suo territorio naturale, decise di lanciare la guerra santa, e invase il principato. Hari Singh, chiuso nel suo splendido palazzo di Srinagar, fu preso dal terrore, si vide morto, scannato come un infedele; e chiese l'aiuto di Nehru. Il Pandit non aspettava altro, ma prima di lanciare i suoi uomini a salvare il Maharaja, gli fece firmare un accordo con il quale il Kashmir si univa all'India della religione del suo principe e non al Pakistan della religione del suo popolo. Cominciava la prima guerra indo-pakistana. Centomila uomini di Delhi avanzarono dentro le terre del principato, attaccando con artiglieria da campagna e lunghe rincorse dei fantaccini. I soldati col pennacchio rosso di Jinnah furono respinti indietro, lungo le vallate del Gehlum, fino a quando intervennero le Nazioni Unite a segnare una linea di cessate-il-fuoco. «Proprio quella», dice il generale, e mostra il gradiente che si allunga nella valle di fronte a noi, anzi tra noi, e gli indiani appostati sotto gli alberi. «Questa linea di controllo va avanti per più di 800 km: noi da questa parte, e gli indiani di fronte». Nel tempo dei cinquant'anni che sono passati da quel 22 ottobre del '47, i due eserciti si sono affondati nel terreno, giorno dopo giorno, costruendo - da mia parte e dall'altra - migliaia di bunker, con uomini, artiglieria, e camminamenti protetti. «Noi controlliamo ogni loro movimento, ma anche loro lo fanno con noi. E non è certamente un fronte dove si possa sbadigliare». Una seconda guerra scoppiò nel '65, ad agosto, ma non modificò la linea di scontro. «Qui, avanzare è difficile. Forse anche impossibile», dice il generale. La strada di terra è stretta, e precipita sull'abisso. «Bastano un paio di uomini da questa parte e da quella della vallata, con un buon fegato e mi ricco deposito di colpi da mitragliatrice, e qui nemmeno mille soldati nemici ce la fanno a passare». Il fuoco incrocia¬ to tiene costantemente sotto tiro chi tenta d'avanzare, la strada non consente movimenti di tank. E' mia vera trappola, non diversa poi da quella che i mujahiddin preparavano ai sovietici nell'Afghanistan. Però qui i due eserciti ora hanno la Bomba. «Certamente, ma dal punto di vista tattico non cambia nulla. Qui il contatto tra i combattenti è diretto, quasi ci guardiamo in faccia. La bomba atomica riguarderebbe, semmai, Delhi e Islamabad. E tutto questo esula dai miei compiti di comando». Heidar Khan prende il binocolo a un sergente, poi si appoggia al muretto di sabbia e guarda la vallata che sta di fronte a noi. «Ecco, ci stanno proprio osservando. Potrebbero anche tirare». La guerra qui si fa ogni an- a no, ma comincia ad aprile, quando il sole prende a sciogliere la neve, e si chiude a novembre, quando i passi sono sepolti sotto il ghiaccio. E' una guerra di logoramento, stagionale. «Ma fa morti ogni anno e non tra i miei soldati, che hanno i bunker e l'elmetto. Ma tra i civili, tra i contadini che lavorano la terra, tra le donne che vanno a prendere l'acqua, i bimbi che vanno a scuola». Chakoti, sotto di noi, à l'ultimo paesino dentro terra pachistana, in questa parte del regno del Maharaja che qui chiamano «Kaslunii; liberato» (al contrario, naturalmente gli indiani lo chiamano Kop, «Kashmù- occupato dal Pakistan»). Chakoti è mi gruppo di una ventina di case di legno, con im paio di negozietti al buio, quattro galline che razzolano nella terra e due mucche stese a ruminare sull'erba. «Quelli hanno sparato anche stanotte, per spaventarci», dice Abdul Auranzeb, e scuote la sua lunga barba. Arriva mi soldato con un enorme proiettile tra le braccia: «Ecco, sir, questo è un colpo da 165 millimetri, l'hanno tirato la settimana scorsa». No, non ci sono stati morti, «però abbiamo tutti paura». Questo pezzo di Kashmir pachistano è interamente musulmano, sotto un governo musulmano. Quello dell'altra parte è aU'80% musulmano, ma sotto mi governo hindu. E il governo hindu, per tenerlo buono, ci manda di guarnigione 650 mila uomini. Un soldato per ogni 7 civili, la disastrata misura di un esercito di occupazione. «Prima o poi saremo tutti un Kashmir unito e libero», aveva detto poco fa mio dei giovanotti che stava accostato allo stipite del negozietto-drogheria di Chakoti. Dice allo stesso modo il governo nazionalista hindu, a Delhi: «Presto saremo un Kashmir unito e libero», ma intende la cosa opposta. La guerra cova sotto questa contrapposizione, che è militare liuigo la linea di divisione ma e politica, pericolosamente politica nei due territori nazionali. Il generale Heidar Khan comanda la brigata Al Raad, che vuol dire la folgore. «Quelli lì non ci fanno paura, proprio per niente - dice il generale - ora abbiamo la Bomba anche noi». Beve il suo tè al latte, nella sala del circolo ufficiali; gli uomini attorno a noi stanno in piedi, con i pennacchi rossi ben diritti. Da ima vetrina spunta il dorso di una piccola biblioteca: Hemingway, Le Carré, ma soprattutto libri di strategia e di battaglie storiche, anche «The Italian Campaign», sulla seconda guerra mondiale. L'ultimo libro poi, sulla destra, ha mi nome incredibilmente riconoscibile: «Lives», autore appunto Giulio Andreotti. Chissà come ha fatto a finire quaggiù. Il generale sorride e si stringe nelle spalle. «Mali, non so proprio». Sono i misteri del Kashmir, dove nemmeno l'intelligenza raffinata di Andreotti basterebbe però a risolvere un rompicapo come questo, che da cinquant'anni mette due eserciti a spararsi contro. Solo che ora qui c'è la Bomba, e tocca allora al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite intervenire presto, anzi subito. Mimmo Candito i Il generale Heidar Khan, che comanda la piazza: «Qui dal punto di vista tattico la Bomba non cambia nulla Il contatto tra i combattenti è diretto» Da entrambe le parti migliaia di bunker di uomini, pezzi di artiglieria e camminamenti ^m Un militare pachistano controlla col binocolo i movimenti di truppe indiane oltre il posto di confine di Chakoti: qui gli incidenti tra i due eserciti sono quasi quotidiani