CAMILLERI d

CAMILLERI d Intervista con lo scrittore che ha creato un personaggio-culto: il commissario Montalbano CAMILLERI d CAMILLEenigmi a Porto Empedocle ROMA DAL NOSTRO INVIATO Questa potrebbe davvero «spiarsela» il commissario Salvo Montavano, se mai il suo autore glielo permettesse. La domanda è semplice: che cosa è successo nella vita di uno scrittore che se ne stava «contento» delle sue cinquemila copie, per spararlo come per incanto sul palcoscenico di una notorietà che rasenta il culto, l'infatuazione collettiva? Il linguaggio, e cioè quel piacevole, enigmatico e tratti straniarne impasto di italiano e siciliano? No, quello c'era anche prima, quando II birraio di Preston riscuoteva tre anni fa un ottimo successo di critica, appena pubblicato da Sellerio. Per fare il salto alle grandi tirature c'è voluto il personaggio, e cioè il commissario stesso, che ha avuto appena il tempo di essere messo su carta ed è diventato un eroe nazionale. Andrea Camilleri, 73 anni, nella sua casa romana fuma una quantità notevolissima di sigarette e racconta di quella volta che, proprio a Catania, dopo una presentazione, venne avvicinato da tre gentiluomini assai compunti che, ignorando completamente la signora Camilleri, lo trassero da parte - al buio - e gli chiesero con tono preoccupato perché mai il commissario Montalbano dovesse essere «zito» con una donna di Genova, anzi di Boccadasse. «E che, non ci sono belle donne anche qui in Sicilia?» sbottarono con aria (forse) minacciosamente desolata. «In quel momento mi sono sentito un autore di telenovela» confessa Camilleri. E forse in quel momento sentì per la pri ma volta che il suo commissario stava cominciando a diventare un po' ingombrante. Ora che di romanzi con Montalbano per protagonista ne sono usciti quattro (sempre da Sellerio), lo scrit tore confessa di «sentirsi insegui to». «E' come quando su una slit ta si fugge da un branco di lupi, e si gettano pezzi di carne per rallentarne la corsa, per prendere tempo. Sto facendo proprio così» Una metafora «siberiana» per spiegare la genesi del nuovo libro in uscita oggi, questa volta da Mondadori. Un mese con Mon talbano, ovvero trenta racconti che riprendono il temibile commissario da tutte le angolazioni possibili, com'è ora, quand'era giovane, quand'era di prima nomina; a Vigàta, che è la natia Porto Empedocle dello scrittore, ma «a geometria variabile», in giro per l'Italia (per esempio a Trie ste, dove viene borseggiato) e per la Sicilia, all'inizio della carriera Trenta racconti. Trenta «pezzi di carne» per prendere tempo... Questo significa che dopo Montalbano farà davvero una pausa? Camilleri sogghigna e non ri sponde. Ma svela che da quattro anni lavora a un romanzo ispira to a un fatto storico dimenticato, l'autoproclamazione di un re ad Agrigento poco dopo che i Savoia avevano ceduto la corona di Sicilia in cambio della Sardegna. Un re contadino che durò un mese, e fece una brutta fine. Camilleri ha un problema: come farlo parlare, quale impasto di italiano e dialetto trovare per lui. Come si vede, siamo agli antipodi di Montalbano: che invece è colto, gran lettore di romanzi, gran ghiottone, e in quel suo modo ruvido è uomo di mondo. E, come accade per gli eventi decisivi, nella vita di Camilleri ci è arrivato per puro caso. «Fino ai 2324 anni, io pensavo a scrivere storie, ma in siciliano, perché l'italiano mi dava poca autonomia, mi sembrava che mi mancasse il fiato. Fu un progetto accantonato, perché frequentai l'Accademia d'arte drammatica e mi dedicai al teatro. Solo dopo i 50 anni tornò quella vecchia idea». Ma fermiamoci un momento. Nel frattempo era accaduto qualcosa che avrebbe dato i suoi frutti. «Se si riferisce a Maigret, è vero. Mi occupai, come direttore di produzione, di tutta la serie televisiva, lavorando fianco a fianco con lo sceneggiatore, Diego Fabbri, che era bravissimo a "destrutturare" i romanzi di Simenon e successivamente a rimontarli nella sceneggiatura. Grazie a lui ho capito come funzionava davvero il giallo». E non ne ha fatto niente. «Non ancora. In realtà pensavo al linguaggio, volevo scrivere una storia siciliana. Una sera mi accorsi che stavo raccontando qualcosa a mio padre - che se ne moriva tranquillamente qui a Roma - ma scegliendo le parole, cercando di essere efficace: e ne veniva fuori un linguaggio famigliare più accorto, più attento». Era la chiave? «In qualche modo sì. Noi a casa abbiamo sempre parlato un dialetto continuamente arricchito dall'italiano, per il quale a me andava benissimo la distinzione chiarita da Pirandello: di una data cosa la lingua italiana esprime il concetto mentre il dialetto esprime il sentimento». Pirandello è molto presente nella sua opera. «Perché non possiamo non dirci pirandelliani, noi di questa zona intorno a Girgenti, Sciascia compreso». Camilleri non dice mai Agrigento. Sempre Girgenti, che poi è la Montelusa dei suoi romanzi. «Pirandello era di casa, nella mia famiglia. Conservo un "abbassi", un foglio con la contabilità dello zolfo, dove sono presenti le firme di Stefano Pirandello, padre di Luigi, del padre della futura moglie del drammaturgo, dei miei nonni paterni e materni. Tutto questo prima che avvenissero i matrimoni, sa come li chiamavano? Matrimoni di zolfo. Erano unioni di interesse, di comodo, che poi diventavano d'amore». Così, grazie a Pirandello e alle sue osservazioni sul linguaggio nacquero i romanzi d'esordio, Il corso delle cose» (nel '78, da Lalli) e Un filo di fumo (nell'80, da Garzanti). «Nel primo si avvertiva ancora la fatica del procedimento linguistico, nel secondo non più, tutto filava liscio. L'editore mi chiese comunque un glossario, che io scrissi divertendomi assai. Pensi a come si può spiegare la parola "minchia".. ». Quei due volumi restarono libri per pochi, mentre l'amico Leonardo Sciascia un po' lo sgridava («tu usi troppe parole in siciliano») e molto lo spingeva a scrivere quando lui gli sottoponeva curiosità storiche scovate chissà dove. Accadde come per Bufalino: Sciascia propiziò l'incontro con Elvira Sellerio, e a poco a poco i «documenti di storia siciliana» che scriveva Camilleri divennero quel che erano, romanzi. Venne infine Montalbano, che somiglia un po' a Maigret e si chiama quasi come Manuel Vasquez Montalban. Un «omaggio globale al giallo europeo», il cui dna è scritto in quel lungo lavoro televisivo con Fabbri. «Ma Maigret è immobile, Montalbano cambia, le inchieste lo mutano, insomma cresce con le sue indagini. E nonostante il nome non è assolutamente un Pepe Carvalho». Cioè il personaggio di Montalban, con cui divide la passione per la cucina. «Con una differenza fondamentale. Nessuno potrebbe mangiare come Pepe, senza morire molto presto. Tutti possono imitare Montalbano». Al più, ricavandone una certa pesantezza di stomaco. «Le sue ricette sono autentiche e sperimentate. Le ho prese da un vecchio libro che usava mia madre». E le abbuffate di letteratura? «Quelle sono mie. Gliele ho passate io». Cos'altro gli ha dato, di suo? «Un certo buon senso, e l'ironia». Lei dice che è un omaggio al giallo europeo. In che cosa lo sente diverso da quello americano? «Perché ad esempio negli scrittori più alti, come Hammett e Chandler (Montalbano, comunque, preferisce Hammett) si vede come il loro sia un mondo metropolitano, mentre il nostro è un universo municipale, direi quasi di provincia. La Parigi di Maigret è un villaggio... E poi l'investigatore europeo non è mai un duro. Ha notato come Montalbano sia casto?». Sì, perché? «Perché quando ero ragazzo mi fottevo dalle risate a leggere i gialli americani, quelli con i "duri" che pigliavano per tutto il giorno un sacco di botte e poi per tutta la notte facevano all'amore. Ma ci pensa? Dopo un trattamento del genere, neanche una carezza...». Un problema di verisimiglianza? Sì e no. Un problema di carat- tere. Perché anche Montalbano, a modo suo, è un personaggio fortemente idealizzato. Camilleri non ci nasconde che è diventato l'idolo dei commissari e dei pubblici ministeri di tutta Italia, anche perché «gli ho dato una libertà d'indagine che loro si sognano». Ma senza esagerare. «Sciascia diceva che il giallo è la forma letteraria più onesta, perché non puoi barare col lettore». E in fondo Montalbano è nato per onestà. «Fino ad allora avevo sempre scritto partendo da uno spunto storico che fungeva da stimolo emotivo. Poi mi son detto: cerchiamo di farne a meno. L'unica soluzione era scrivere un giallo. Il primo è stato La forma dell'acqua, ma mi sono accorto che Montalbano era solo una funzione. Ho scritto il secondo romanzo per dargli più sostanza, per definirlo meglio come personaggio...» E gli altri? «Perché ormai cominciavo a divertirmi». Scusi Camilleri, ma a Vigàta spesso c'è ben poco da divertirsi. C'è la mafia, ad esempio. «Sono zone di "stidda", che è una mafia più tradizionale; una mafia della quale posso parlare, perché dell'altra non so abbastanza. E poi sono convinto che i codici siano talmente cambiati... Io provo una stima affettuosa, un'attenta trepidazione per il procuratore Caselli, che ritengo il primo vero risarcimento dato dal Piemonte alla Sicilia. Ma quando, proprio sulla Stampa, mi dice di non trincerarmi troppo, perché la mafia l'ho spiegata bene nel Birraio di Preston, beh io ripeto che i meccanismi a me noti, i codici appunto sono sorpassati. Non sono più quelli». Lei torna regolarmente in Sicilia a raccogliere storie, materiale per i suoi libri, spunti per Montalbano. «Certo, ma comincio ad avere delle difficoltà. Mi è capitato di essere invitato a bere un whisky in un bar di Porto Empedocle da un signore che incontravo spesso, con cui si chiacchierava intorno a un bicchiere. Era al tavolino, con altre persone. Io tardo a raggiungerli, mi fermo guardando le bottiglie al bar, e me le vedo saltare per aria. Dietro di me sparavano, e proprio sulla persona che avrei dovuto raggiungere. Era una strage di mafia, ci furono sei vittime. E io, che avevo parlato molto spesso con questo tipo, non avevo mai pensato che fosse mafioso... Trent'anni fa non mi sarei ingannato, l'avrei saputo prima chi era». E' per questo che Montalbano non si vuol mai far trasferire da Vigàta? «Sì, perché lì almeno qualche codice ancora lo capisce». E a lui, in fondo, basta capire: «Lui sa benissimo che non sempre la verità coincide con la giustizia. Ma, guardi, a volte lo sapeva anche Maigret». n a i l - Mario Baudino // nuovo libro esce oggi da Mondadori Trenta racconti impastati di italiano, dialetto e ironia: «Un omaggio globale al giallo europeo» «Da ragazzo mifottevo dalle risate con i thriller americani dove i duri pigliavano un sacco di botte e poi per tutta la notte facevano all'amore» I v iimjRA O o scrittore che ha creato un ggi da Mondadori racconti impastati dialetto e ironia: al giallo europeo» MARTEDÌ'personaggio-culto: il commissar«Da ragazzo mcon i thriller ampigliavano un sper tutta la not Nell'immagine grande Andrea Camilleri. Qui sopra Luigi Pirandello: diceva che l'italiano esprime i concetti, mentre il dialetto i sentimenti. Sotto Georges Simenon