Lisbona, una finestra sull'acqua

Lisbona, una finestra sull'acqua La città festeggia il suo benvenuto in Europa, ma il futuro progettato è vecchio e datato Lisbona, una finestra sull'acqua L'Expo '98, tra pioggia, code e la babele delle lingue LA SCOMMESSA LUSITANA LISBONA DAL NOSTRO INVIATO Era un bel po' di tempo che non andavo a fracassarmi le ossa dei piedi in una fiera universale, e credo di aver fatto bene. Finora. Ma quella di Lisbona, francamente, bisognava vederla a tutti i costi: il piccolo e grandioso Portogallo è fra noi e di qui a poco non dovremo nemmeno ammattirci per capire esattamente quanto vale un escudo, ci penserà l'Euro. Non so dire, come giudizio finale, com'è questa fiera, se bellissima o terribile, se può essere paragonata a una gigantesca tortura progettata in un plastico gigantesco da architetti e sociologi degli Anni 70 ibernati fino ad oggi. Oppure se è quel che promette di essere: una finestra sull'acqua del mondo, sullo stato del futuro e anche dell'oceano. Un'esposizione della memoria di ogni Paese che sia bagnato dal mare o che abbia sognato il mare. Dietro la fiera, questa «Expo '98» che ha per logo un terrificante pupazzo sorridente che sta a metà fra un nano da giardino e un cartone animato polacco dell'epoca di Gomulka, c'è pur sempre la Lisbona dei quartieri arrampicati da godere in voluttà. E dei tram colorati che salgono verso il castello. Delle vie scoscese lungo le quali le donne cuociono pesce alla brace malgrado la pioggia. La pioggia, che è sempre una sciagura per ogni esposizione universale che si rispetti, per questa Expo è come un proseguimento amniotico del tema acquatico, ovvero il padre (o madre?) oceano sul quale il Portogallo si protende. E dal quale, come la Spagna, richiama la sua memoria americana e africana e indiana e cinese, sicché l'oceano è alla fine il legame che unisce quel che resta di portoghese in luoghi come Goa o Macao, Angola e Mozambico. E Brasile naturai mente. Tutto ciò detto, uno entra all'esposizione e si dichiara esausto già solo a guardarla. Sì, è vero: c'è un servizio di bus-navetta che fan no avanti e indietro, ma solo lungo l'asse longitudinale della cittadella, che è parallela al mare e ha il suo centro nella stazione d'Oriente. Do po aver percorso alcune decine di chilometri su un selciato bianco e insidioso, qua e là policromo, anzi nero, uno si decide a puntare verso una sorta di avamposto lunare alto su una collina artificiale, e che sa rebbe il padiglione dell'Utopia. Non vi sapremo dire niente perché siamo scappati. Me ne sono andato chiedendo permesso e sca valcando file di sedie di plastica, quando ho capito di che si trattava: un megaluogo infernale dove si possono stipare diecimila capi di bestiame turistico, fissati a sedere come a mangiatoie da hostess che funzionano come kapò e che ti costringono ad assieparti gomito a gomito con folle di sconoscuti, in atte sa che, fra un'ora, cominci lo spet tacolo, che di spettacolo si tratta. Uno spettacolo multimediale di grandiose proporzioni sceniche, ma del genere di quelli di cui uno pensa di aver già fatto il pieno in qualche Disneyland del mondo. Ecco, a differenza dalle altre Di sneyland, questa fiera lisbonese è un deserto per ciechi. Del deserto ha le dimensioni: una città di spazi da incubo, come una realizzazione onirica di quadri di De Chirico in stato di dilatazione, ma con pochis sime indicazioni sotto forma di frecce che dicono, padiglione di questo, padiglione di quello. Ma è per ciechi perché ciò che credi di vedere ti inganna, è altrove, è oltre, è irraggiungibile e frustrante, ridot to come sei alle dimensioni di formica in un plastico di studenti di architettura straricchi e spendaccioni: tu non sei che una formica come le altre formiche. E sopra di te vedi milioni di tonnellate di accecanti strutture che non saprei descrivere perché hanno la forma di eliche, di budella di alieno per un film di Spielberg, di onde sussultorie materializzate in tralicci, tutte linee tese, eccessive, volanti, che dovrebbero impressionare ma che dopo le architetture di Nervi fanno un po' l'effetto di un parco dei divertimenti in disarmo a fine estate. Avendo visto come la Santa Sede ha organizzato la visita alla Sindone a Torino, mi intrufolo nel padiglione Vaticano, tutto bianco e giallo, dove trovo bei quadri sulla creazione e anche qui il tema dell'acqua, sviluppato con strumenti d'arte e iconografie. L'acqua dell'oceano è il compito a casa che tutti i Paesi partecipanti hanno dovuto, o voluto, documentare mettendo insieme quadri e grafici, poesiole e gradevoli invenzioni, ma che ti danno sempre l'idea di non sapere bene perché sei lì, che cosa ti vorrebbero far capire tutti gli sponsor di tutti i padiglioni. Il padiglione italiano, che non è affatto male, segue lo standard generale, con qualche idea scenografica che magari ci sembra un po' una puttanata, come una balena bianca di legno, con cartello che dice grazie a nome di tutte le balene per quello che l'Italia sta facendo (e non è ben chiaro che cosa) ma con l'aggiunta di una scritta vezzosa sulla pancia della balena stessa che dice: «My name is Giulia». Perché questa balena si chiama Giulia? Perché nel padiglione italiano espo sto in Portogallo la signorina Giuba, di professione balena, si espri me in inglese? Forse, azzardiamo, perché l'inglese, questo accertato esperanto è il convitato assente dell'esposizione. La gente che do vrebbe darti informazioni in ingle se non lo sa. Non ne sa di più di quanto ne sappia un vetturino ro mano, o un venditore di formaggi torinese. Qualche parola farfugliata a stento. Francese, neanche a parlarne, e se ti azzardi con i portoghesi a tirar fuori lo spagnolo, sono col ti da un attacco di nausea e rabbia che impedisce loro di rispondere. Insomma, nessuno ti dice chiaramente dove sei (te lo puoi cercare sulle carte, d'accordo) e come si fa per andare da qui a lì. Ma sono gentilissimi, assolutamente gentili questi della fiera: tu gli chiedi, che so, dov'è l'ufficio stampa, o il padiglione italiano, o quello dello Sri Lanka, glielo chiedi in tutte le lingue compresa la loro e sei disposto ad ascoltare una risposta in portoghese, e loro annuiscono inghiottendo perché hanno capito. Annuiscono sorridendo più volte per l'entusiasmo di aver capito e il desiderio quasi spasmodico di poter essere utili. Poi cominciano a mugolare con un sorriso che passa dalla gioia alla sofferenza, mentre gli occhi si fanno vitrei e le labbra secche, emettendo come vapori qualche parola che potrebbe essere anche inglese. Alla fine li ringrazi di cuore prima che abbiano un malore. Sono tutti veramente cortesi. E mentre ti perdi, la domanda che più forte ti cresce nel cuore è: perché l'avete voluta fare così vanamente enorme, e perché con quella decorazione continua da scheda perforata (e colorata) da Anni 70, quando si pensava che il futuro sarebbe stato una bolletta del gas progettata dalla Ibm? Per tornare al padiglione italiano, non è certamente pessimo, visti gli altri, ma somiglia allo stand di una agenzia: ci sono alcune realizzazioni, macchinari, modelli di vigorose navi genovesi e veneziane, poi attrezzature in scala molto interessanti che recano i nomi di Fiat, Eni, Telecom, Alitalia, Finmeccanica e non sai bene qual è il filo conduttore, salvo questo maledetto oceano che ti perseguita a ogni angolo come metafora, indicazione, spettacolo, con dentro qualsiasi cosa possa andarci bene, dai pesci agli indios, dall'archeologia alle danze. I padiglioni di Germania, Svezia e Spagna vantano all'esterno una coda lunghissima di gente che aspetta di entrare. Quasi tutti gli altri Paesi, compresi Francia, Gran Bretagna e Italia non hanno coda. Attacco d'invidia: perché quelli sì e noi no? Secondo una delle milanesissime belle ragazze che presidiano il nostro padiglione, si tratta soltanto di un effetto ottico: ci sono Paesi che si divertono sadicamente a far entrare i visitatori solo a gruppi, costringendo gli altri a aspettare in fila. Sarà, ma ci sembra fiacca. D'altra parte le code dei Paesi furbi sono così grandi da disinvitare. Vado a vedere l'Algeria, invece. E anche qui effetti speciali di un cielo stellato di piccole lampadine che si riflettono su un pavimento che fa da specchio, e poi tappeti, immagini di cammelli, di scogli, di pesci e così via, con un patio da agenzia turistica che spiega come il mare sia in pericolo e lo si debba salvare. I ristoranti non mancano, anzi sono numerosi e funzionano bene, per tutti i prezzi e gusti. Ma francamente non me la sento e vado in una di quelle deliziose bettole sulla collina, da «O cobacinha limonei- ro», dove ti buttano in un corridoio pieno di tavoli che non si reggono in piedi e fra vino rosso e prosciutto tagliato con l'accetta puoi divertirti con un fado ruspante e straziante che ti investe con la memoria. Due chitarre che diventano tre, tre formaggi che diventano quattro e un piatto di gamberi appena scottati e tutto che puzza soavemente di gambero e vino e prosciutto e sudore e questo fado che ti corre per le vene. Pessoa seguita a stai-sene lì, di bronzo sulla sedia del suo caffè, a compilare scritture preziose sui quaderni contabili della ditta. Certo, le esposizioni invecchiano con l'umanità del nostro secolo che le ha contenute tutte, tranne le prime tre che si svolsero a Londra, Parigi, e di nuovo a Londra e di nuovo a Parigi, prima di prendere la via di Vienna e Filadelfia, Melbourne e Barcellona, Chicago e Bruxelles, Torino, Liegi e Milano, San Francisco e Chicago, fino all'ingresso di Tokyo nel 1970. Lisbona in realtà con questa Expo festeggia degnamente il suo benvenuto in Europa. Il benvenuto dovuto a ima città e ima nazione che, malgrado Pessoa a anche Pereira, è ancora immersa in una dimensione che per noi è antica come la memoria: Lisbona è come mia città onirica italiana degli Anni Cinquanta, solo molto più delicata. Con una povertà visibile ma non ostentata. Ed è una città che ha un'ansia di futuro, ima voglia di rientro nel novero dei grandi. Con l'Expo si è data anche una veste moderna, più lùturosa che futurista. Ma il futuro che i suoi progettisti ed architetti hanno immaginato, è datato, è vecchiotto come le deliziose vetrine in cui campeggiano fette di pesce forse fresco ma polverose, insieme a petti di pollo e ninnoli di vetro. Ognuno naturalmente la vedrà come vuole e la godrà e la soffrirà con i suoi mezzi e sensibilità, ma il viaggiatore si prepari: si studi i percorsi una settimana prima, impari i rudimenti del portoghese rinunciando a fingere di sapere lo spagnolo, si provveda di scarpe ortopediche. Qui se piove coprono le panchine di legno per ripararle e dei viandanti stanchi non gliene ùnporta niente. Siate pazienti, siate ben disposti, uscite spesso dalla mostra e andate in giro col naso per aria per Lisbona, salite sui tram colorati, andate in alto o in basso e fermatevi a mangiare ovunque vi sembri poco igienico. Alla musica del Cado anche il tavolino ballerà, ma voi fermatelo con una zeppa di cartone e chiedete vino verde. Paolo Guzzanti Il padiglione italiano assomiglia allo stand di un'agenzia Nessuno parla inglese le risposte arrivano solo in portoghese Così è facile camminare tanto e sbagliare strada L'EXPO IN CIFRE Superficie di esposizione: 60 ettari Paesi partecipanti: 155 (91% della popolazione mondiale) Visitatori previsti: 8.300.000 Spettacoli: 3900 Ore di copertura televisiva previste: 1300 v A sinistra, le pensiline in acciaio e in vetro che sovrastano la stazione d'Oriente a Lisbona. Sotto, l'Elevador do Carmo, il grande ascensore in ferro costruito nel 1902 nel centro della capitale portoghese da Eiffel, e il ponte sulla foce del fiume Tago, lungo diciassette chilometri.

Persone citate: Carmo, De Chirico, Eiffel, Gomulka, Paolo Guzzanti, Pereira, Pessoa, Spielberg