Consiglierato all'italiana di Filippo Ceccarelli

Consiglierato all'italiana IL PALAZZO Consiglierato all'italiana A chi consi. glia i consiglieri? Interrogativo, neppure troppo provocatorio, che sorge spontaneo ai margini della disputa di fine settimana su chi, su quali e su quanti abbiano consigliato Berlusconi di dare un calcio alle riforme, rompendo l'asse D'Alema-Fini e spostandosi al centro. Consiglieri da «licenziare in tronco», secondo il baffuto segretario dei ds. Consiglieri del tutto ipotetici e probabilmente inesistenti, secondo Cossiga, che pure s'è riservato di aggiungere un accenno a un possibile onorario («pagati o meno che siano»). Consiglieri, infine, orgogliosamente negati dal Cavaliere - ma anche qui con una chiosa felice (dal punto di vista della comunicazione) e al tempo stesso infelice (per via delle inchieste siciliane): «Non ho consiglieri né consigliori». Di consiglieri, in realtà, Berlusconi ne ha sempre attorno uno stuolo. Gli secca soltanto - e a ragione - che si possa pensare che non decide lui, da solo. Tanto che questa sua solitudine decisionale è confermata pregiudizialmente e all'unisono da Letta, Pilo, Dell'Utri, Querci, Mennitti, Ferrara e Baget Bozzo di cui pure esistono reperti (fogli abbandonati dal Cavaliere sul tavolo alla presentazione del libro di Vespa) che confermerebbero un'effettiva e anche un po' assertiva consulenza. E tuttavia la novità, segnalata dalla Stampa, è che i nuovi consiglieri di Berlusconi sono, se non proprio vecchi, almeno antichi. Oh, gran virtù dei consiglieri antichi: Andreotti, De Michelis, Cirino Pomicino e lo stesso Cossiga (almeno nell'ultima fase). Di Craxi s'è sempre detto (con doverose smentite da Hammamet). Un po' stupisce, semmai, l'assenza di Forlani, che come gli altri ha un sacco di tempo libero, una quantità di esperienza e un comprensibile desiderio di risarcimento. Ma non è questo il punto. Quel che colpisce, al di là della vaghezza del ruolo, sembra essere l'arrivo di questa «nuova» leva di consideri fino a ieri considerati 1 ques I glieri in disgrazia e l'altroieri, nell'autunno della Prima Repubblica, a loro volta consigliati da fior di consiglieri. Basti ricordare i «Pomicino boys» del Bilancio, il leggendario staff di De Michelis alla Farnesina che determinò una specie di insurrezione del corpo diplomatico, o il gruppo informale ammesso all'esclusivissima cerimonia della rasatura andreottiana nel bagno dello studio di piazza Montecitorio. E dire che anche senza questa inedita circolarità esistenziale di consiglieri ex consigliati, i percorsi, i destini, gli stessi modelli umani che nel corso del tempo hanno dato lustro alla funzione, insomma, tutto lasciava immaginare una varietà di consulenti perfino eccessiva. C'era già il Tato protettivo, per dire, e il Maccanico aggiustatutto; c'era il Cresci cerimonioso e l'Amato proceduralmente perfetto («Ghino di Taschino»). Vennero poi i Piepoli, con le loro suggestioni demoscopiche; si fecero ascoltare i Miglio, con i dovuti stravolgimenti istituzionali in dotazione; e perfino i Mastella, che impreziosirono con citazioni di Baglioni le chilometriche relazione demitiane. I tempi presenti sembravano fermi all'allegra complicità dei Velardi su D'Alema, o ai colpi di genio della nipote di Prodi che ispirò Di Pietro ai LLPP. E invece no. La fantasia del gran «consiglierato» italiano non ha limiti. «Sei uno psichiatra o uno che fa i film?», chiese Bush prima di assumere Robert Goodman. Mentre in America i suggeritori li cercano fuori, qui da noi si torna ad Andreotti. Mica l'ultimo arrivato, comunque. Filippo Ceccarelli bjlI

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