«Scrivo per dispiacere»

«Scrivo per dispiacere» L'intervista. Parla il direttore della Rai che sta per pubblicare un volume di racconti «Scrivo per dispiacere» Celli: cerco il dibattito, non la fama — ROMA I dice che in Italia sia mancata una letteratura burocratica, anche se poi c'è sta I to Gadda e che sulla letteratura industriale si sia avuto, in fondo, poco più che un dibattito. Pierluigi Celli, manager pubblico, pamphlettista, scrittore dalla vena surreale ispirata al conterraneo e amico Fellini, ha inventato invece, così si dice, una sorta di «letteratura aziendale» che ha per centro le imprese di Stato. Tornato oggi alla Rai come direttore generale, ha appena pubblicato da Sellerio Addìo al padre, un dittico di racconti in cui la figura principale dei libri precedenti, l'Impresa, sembra scomparsa. CeUi però ne parla, con distacco cordiale e un lampo d'ironia sempre presente nello sguardo chiaro. «Dopo averne viste tante, di imprese, uno non ne può più», dice quasi fra sé. «Ho combattuto con quasi tutte. Tranne la prima e più grande, l'Eni, tutte le altre, l'Enel, l'Olivetti, l'Omnitel, sono state difficili». Insomma, l'Impresa è una vera impresa. «Sì, l'Impresa è un'impresa tremenda. All'inizio riempie la testa, l'anima, e uno è anche curioso di andare a vedere che cosa succede e di descriverlo. Poi ci si stanca, perché non si riesce comunque mai a cambiare le cose». Dopo i primi libri l'avevano soprannominata «il Marziale della "nomenklatura" italiana», un personaggio comunque scomodo. I due racconti di oggi sembrano voler dire: perché sono questo? guardate da dove sono venuto. «Mio padre era muratore in un paesino vicino a Rimini e lo affascinavano solo tre cose: musica, quadri e libri. Nel suo lavoro si faceva pagare in quadri o in dischi d'opera. Si accontentava anche di libri d'arte. Si faceva pagare in soldi solo se proprio uno gli stava antipatico». Pensa che l'eccentricità sia una connotazione genetica? «Sì, che si paga. Vivere questa condizione all'interno di un'Azienda di Stato è scomodo e soprattutto precario. Alla Rai non volevo tornare, perché so come sono fatto. Se non sono d'accordo con le idee che ho, preferisco cambiare io e non cambiare le idee». E sua madre, alla quale è dedicato il primo racconto? «Mia madre, poveretta, doveva allevare cinque figli maschi vendendo di nascosto i quadri che avevamo a casa. Spesso non c'era quasi da mangiare, però a casa c'era sempre qualcuno di passaggio, venuto a raccontare le novità». E suo padre? «Mio padre amava fare il Capodanno in treno e soprattutto andare all'opera. Una volta all'anno, e non voleva sentire storie, veniva a Roma e in sei giorni, oltre all'opera, vedeva tutto quello che gli piaceva. Tornava a casa solo alla Befana». Ecco le voci dell'inizio del secondo racconto, quelle degli uomini che all'alba tornano cantando. «Con Fellini, entrambi riminesi a Roma, ci raccontavamo dei vecchi che dalle nostre parti andavano a piedi all'opera a Cesena e poi tornavano la mattina. E quando tornavano si sentivano di lontano le voci, nostra memoria infantile». A Fellini la lega la visione grottesco-m alinconica del mondo. «Il mondo del lavoro è popolato da manager che si prendono troppo sul serio». Non è un male diffuso anche tra intellettuali e politici? «Almeno i manager hanno un mestiere. La professionalità degli altri invece è opinabile e quindi è persino più preoccupante che si prendano sul serio. I manager in genere rischiano in proprio, perché se fanno male li cacciano. Politici e intellettuali è più difficile che paghino». Una figura che sembra stimolarla è quella del voltagabbana. «Esempio encomiabile / di fedeltà alla scuola. / Perché non premiarlo / con una banderuola», dice un altro dei suoi aforismi. «Quando sono tornato qui in Rai me li hanno fatti scontare tutti, i miei aforismi. Perché vede, tu dici una cosa in maniera ironica e loro la prendono sul serio. L'azienda è costituzionalmente pesante, incapace di leggerezza. Ma lei può immaginare di starci 16 ore al giorno senza divertirsi un po'? Solo che qui per una boutade sono capaci di farti uno sciopero». Lei scrive della «soddisfazione di cambiare errore». Sembrerebbe invece che gli italiani preferiscano l'opportunismo politico soprattutto. «Guardi, ricominciare da capo mediamente ogni anno e mezzo, come ho fatto io, è piuttosto arduo. L'unica motivazione è la prospettiva di raccontarlo». Allora è autobiografico quel suo aforisma: «Sesso e scrittura / nella sventura»? «Poco sesso e molta scrittura, purtroppo». Lei scrive che il rischio di dispiacere a molti è una delle ra¬ gioni per scrivere. Non le sembra che pochissimi in Italia vogliano correre questo rischio? «Scrivere cose ovvie, come quasi tutti, non vale l'impresa. Io non ho cercato la fama. Mi dirà che sono diventato direttore della Rai, ma vede, quando si dispiace a molti tra la gente si crea dibattito». Intende letterario o politico? «Licenziato dalla Rai in mezz'ora, nell'ora successiva mi arrivò un contratto via fax. In seguito, una mattina di cui ricordo la data, fui richiamato come vice di Iseppi. Guardai la compagnia e mi dissi no, per carità. Ma poi, tornato a Ivrea nel pomeriggio, mi ritrovai nominato sulla testa proprio qualcuno di quella compagnia. Di nuovo diedi le dimissioni e dì nuovo, il giorno dopo, fui chiamato, all'Enel, da Tato». Non ci dica che la coerenza pa- «Fino a oggi ha pagato. La coerenza, non l'obbedienza. Anche il servilismo qualche volta paga, ma paga male». «Il cliente ha sempre ragione», lei scrive tra i comandamenti della sua «Burlandia». «Che poi era Omnitel». L'abitudine clientelare nel mondo italiano, latino-mediterraneo, è davvero inelimmabile? «Credo che possa venire superata ora che grazie a Dio sta scomparendo l'indùstria di Stato. Sopravvivono le Poste, le Ferrovie, qualche scampolo di tri, non molto altro. L'unico modello inamovibile per ora è la Rai, che pure non potrà continuare così, in Europa. Vedremo se se ne accorgerà in tempo o se morirà prima di cambiare. Il mercato è duro e non ammette connivenze. Certo la figura del cliente è immortale come quelle della Commedia dell'arte. La Rai è un ibrido che prima o poi bisognerà sciogliere: assomma pubblico e privato, servizio pubblico e anima commerciale. Ma oggi che lo Stato non ha soldi per sovvenzionare un'azienda in perdita, la Rai dovrà sviluppare nuove competenze orientate al mercato». Com'è vista la sua attività di scrìttore all'interno delle aziende? «Per i manager tutto è gioco. C'è chi gioca a golf, chi a calcetto. E c'è chi si sfoga scrivendo. L'uomo è un animale strano. Scrivere è l'unico modo che conosco per venire a patto con problemi che vedo insolubili nella realtà». E come scrive? «Non ho mai corretto un pezzo, io scrivo direttamente a penna. Il secondo racconto del nuovo libro, Un bel dì vedremo, l'ho buttato giù tutto d'un fiato, in una mattinata, un mese prima della nomina in Rai. Mi succede così, le cose si accumulano dentro e poi quando è il momento quello che viene viene, non torno indietro». Ma da dove le viene questa attrazione per le parole? «Anzitutto dalla civiltà contadina, in cui le parole avevano un grande significato, forse perché allora non si metteva niente per iscritto. Oggi, quello che mi sconcerta di più è che sembrano non contare più nulla. E poi ho studiato molte materie clas siche, anche filosofia, ma soprattut to latino e greco. Moltissimo». Silvia Ronchey «Per i manager tutto è gioco: chi ama il golf, chi il calcetto. Io mi sfogo con la penna» «Mio padre era muratore a Rimini e lo affascinavano tre cose: musica, quadri e libri Si faceva pagare in dischi» ubblicare e» ma un volume d«Mio padre a Rimini e ltre cose: muSi faceva pa Sopra Federico Fellini, riminese come Celli e suo grande amico A destra il direttore generale della Rai