«Hatù affondata dagli inglesi»

«Hatù affondata dagli inglesi» «Hatù affondata dagli inglesi» Rabbia e picchetti alla fabbrica dei profilattici LA STORIA IL TRAMONTO Sii UN MARCHIO BOLOGNA DAL NOSTRO INVIATO Quando il nonno del Caselli andava in farmacia, diceva abbassando la voce: «vorrei una veste da camera». C'era una scatola con il talco sul bancone, e le bustine avevano varie misure. Il farmacista capiva benissimo. Rispondeva solo: «Che numero?» La tre, diceva il nonno. A Bologna li chiamavano i goldoni. Sarà stato perché il commenda era l'unico che non si vergognava, Luigi Goldoni, azionista, bolognese doc. L'Hatù era dei Maccaferri, ma non doveva esserci da vantarsene troppo, e allora li avevano dati in appalto al commenda. E quello aveva finito col darci pure il suo nome. «Fidarsi è bene. Ma Hatù è meglio». Quando la guerra era finita c'erano ancora i cartelli con i soldati che sorridevano sotto l'elmo: «Difendetevi!». E la scritta sotto spiegava: «HAbemus TUtorem». Eccoli i preservativi. Venivano da lì gli hatù, facevano credere, da quelle due iniziali. Ma non era vero. Giuseppe Stefani, da 30 anni qui dentro, scatole di mura grigie, corridoi d'asfalto, camici bianchi, odor di lattice, ricorda che li inventarono due tedeschi: Hartmann e Tuphorn. Sono queste le iniziali che hanno dato quel nome. Dice: «Siamo sempre stati l'unica fabbrica italiana a produrre profilattici». Sono sempre stati. Perché dal- l'altro ieri, invece, non lo sono più. Li faranno in Spagna, o in America. A Casalecchio di Reno, 193 dipendenti a spasso, e tanti saluti. Proprio quando spopola il Viagra, che dovrebbe far crescere in modo forse inimmaginabile il numero e la frequenza dei rapporti sessuali. Sono i paradossi dell'economia e del mercato globale. A modo suo, è un'istituzione quella che sta per chiudere, un pezzo dell'Italia vergognosa e del Paese nascosto che è sopravvissuto alle rivoluzioni dei costumi. Oggi, in farmacia, la «veste da camera» non sanno manco cos'è. Non ce n'è più bisogno, gli hatù stanno in prima fila, a volte vicino agli spazzolini. Il passato non conta. E il mercato, è vero, non si fa con i sentimenti. E nemmeno con i principi, come chiedono le signore arrabbiate e spaurite del picchetto, tutte in grembiule bianco davanti ai cancelli di via Ronzani, vicino alla ferrovia, un rettilineo fra due curve moui. «Ditelo a Prodi. Basta con le multinazionali. Ci vo¬ gliono delle regole. Non possono fare quello che vogliono qui da noi, non possono chiudere così». Come protesta la Marisa Cavallari, un milione e 800 mila lire al mese e il marito Tony Remo, delegato sindacale dell'Hatù. «Che facciamo noi adesso? Ci spariamo? Gli inglesi se ne fregano». Gli inglesi sono i nuovi padroni della London International Group, la Lig: un'azienda in Spagna, una in America, e l'altra qui a Casalecchio. La qualità migliore è questa. Ma i guadagni migliori stanno dalle altri parti. In Spagna fanno due milioni di «grosse», spiega Luisa Ercoli, segretaria di direzione: «Da noi un milione. La mano d'opera da loro costa un po' meno. E negli States, ancora meno». Il 35 per cento in più vale da noi un lavoratore, ha spiegato Giorgio Mira, presidente dell'Hatù. Potremmo scherzarci su: i sondaggi più recenti dicono che gli spagnoli sono più virili degli italiani. Se servisse a qualcosa. Qui lo sanno bene che non serve. Così succede che giovedì mattina gli inglesi convocano all'Holiday Inn i due dirigenti, Franco Candini e James Canali: da luglio, gli dicono, la fabbrica chiude. Nessun margine di trattativa. Così: dall'oggi al domani. Gli italiani ribattono: «Ma non siamo in passivo. Perché?» Non c'è bisogno di spiegare: parlano i numeri. E allora, se ne tornerà a casa Elisabetta Mandini, assunta appena dieci giorni fa, e se ne tornerà pure Anna Buccino, che lavora qui da 31 anni, quando c'era ancora il commendator Goldoni, a fare il controllo di qualità. Tutti via, come Giuliano Frassoldati che si fa tutti i giorni 150 km da Mantova andata e ritorno, o come Alfonso Di Lieto che s'era appena trasferito da Amalfi. Oggi, però, sono tutti qui, nella fabbrica degli hatù che chiude. A chi non l'ha mai visto, faun certo effetto veder nascere l'hatù, seguire tutto il processo di produzione, dalle forme immerse nel lattice, e poi asciugate nei forni e ancora immerse e via così, fino all'inscatolamento e al prodotto finito. Eccolo qui, l'hatù. Bianco per l'Italia, rosa per la Spagna. I nuovi non avranno più la forma rettangolare, ma quadrata. Sono quasi tutte donne a impacchettare, a sistemare, a controllare, sedute in fila nella palazzina lunga e squadrata, dietro le macchine che vanno, con i preservativi ammucchiati nelle ceste o infilati nei nastri. Può sembrar tutto così strano. Anche che all'Angela venga da piangere, a pensare che tutto questo è finito, o che a Marisa venga il magone a ricordare che suo marito l'ha conosciuto qui, a Corticella, nel magazzino dell'hatù. E può sembrare strano pure che il sindaco di Bologna definisca «gravissima» la chiusura e parli di «effetti perversi della globalizzazione». A che serve? Non possiamo sperare nemmeno nelle cose che funzionano. Come dire, i tempi passano. Qualche volta chiudono. La stradina. La ferrovia. I cancelli, e i picchetti con le donne in grembiule. «Fidarsi è bene. Ma Hatù è meglio» [p. sap.] Lo sconcerto tra i 193 dipendenti di Casalecchio sul Reno: «Non siamo in passivo, ma Londra non ci considera più competitivi e a luglio chiudono Prodi dica basta alle multinazionali» Uno dei reparti della «Hatù» a Casalecchio sul Reno, l'unica fabbrica italiana di profilattici