Al carnevale atomico del Pakistan

Al carnevale atomico del Pakistan Il Paese esulta anche se l'impattò delle sanzioni sarà duro e si è sfiorata la guerra con l'India Al carnevale atomico del Pakistan Folla infesta per le strade, mullah e vescovi lodano i test ISLAM AB AD DAL NOSTRO INVIATO Qui il reddito prò capite è di appena 481 dollari l'anno, 70 mila lire al mese, duemila lire al giorno; e allora, con solo duemila lire per campare, anche una bomba atomica può servire a risarcire una vita di miseria, di calura puzzolente, di case senz'acqua e senza luce, di un nessun futuro possibile. Asis Sartaj (o forse Sataj) è uno di questi povericristi che ballano, agita nell'aria immobile la sua bandierina e - riconosciuto lo straniero che sta a guardare - gli grida in faccia con i suoi poveri denti neri «ora siamo una nazione, sir». Sulla strada passa strombazzando un camion colorato con un grosso missile di cartone é la scritta «nuclear», come a Carnevale. Asis, che ha ifIèa'mì6tóHe^''Ìk barba imhfèncata, però ha soltktìto 42 anrìr'.' «E undici figli, sir». Undici?, pare una follia;,: «No,, sir, à normale». E*se lo straniero gtidice cHe pero più che una famiglia là sua sembra un esercito, lui se ne va ridendo a raggiungere la sua piccola folla e a raccontare a un altro Asis con il camicione quanto siano strani questi stranieri. Paki-stàn, Paki-stàn. Benvenuto dunque nel club atomico, Pakistan. L'India c'era appena arrivata, ora toccava a lui. Le pance vuote qui non fanno molte differenze, la frontiera che le divide non cambia la desolazione della miseria; sono pance vuote uguali. Ma sono un miliardo e duecento milioni di pance, un quarto di tutta l'umanità; e qui, se davvero l'aria si fa brutta, finisce come nemmeno il dottor Stranamore aveva osato immaginare. «C'eravamo arrivati quasi a un passo», ci dice nella frescura condizionata del suo ufficio il ministro degli Esteri Gohar Ayub. «Gli indiani stavano per lanciare un attacco aereo contro di noi, e noi gli avevamo già puntato addosso i nostri missili Ghauri. Sono missili balistici, fanno millecinquecento chilometri facili. E sarebbe devastante. De-va-stan-te». Al ministro gli si agita il baffo bianco, quando scandisce l'aggettivo. L'orgoglio atomico ha contagiato anche lui che la pancia vuota non ce l'ha per niente. Ma tra India e Pakistan l'odio sta impresso nel Dna nazionale; quando nacquero - cinquantanni fa - fecero una pulizia etnica di cinque milioni di persone, con interi treni che diventavano una succursale dei macelli comunali. La festa collettiva esalta l'orgoglio dei poveri; ma la festa ha anche la gioia della paura sconfitta, la paura del vicino che aveva mostrato il fungo atomico dei propri muscoli. In questo formicaio la violenza è una compagna di strada, qui si ammazza e si muore senza rimorsi. Jinnah, il padre della patria, l'altro ieri stava in una foto che pendeva alle spalle del primo ministro Sharif, quando dall'inquadratura immobile del televisore Sharif ha detto al suo popolo che «tra, la schiavitù e l'indipendenza, tra fa pancia e il cuore, il Pakistan ha scelto l'indipendenza, e il cuore». Jinnah da dietro lo guardava severo, fu lo statista di un orgoglio e di una intransigenza che preferirono ignorare il valore della vita di un uomo. Fece nascere il Pakistan, ma-Io generò nel sangue. Quel sangue non si è mai più asciugato, nei sentieri crudi di questi due Paesi. India e Pakistan hanno già combattuto tre guerre, la prossima potrebbe essere quella che ammazza tutti. Qui perfino i preti sragionano: monsignor Anthony Lobo, vescovo di Islamabad, non si tira indietro dal coro che impazza da qualche parte nelle strade. Dice anche lui Paki-stàn Paki-stàn wii£ Hice: «La bomba è stata una i scelta comprensibile, una difesa della dignità nazionale. Le superpotenze sanno dare buoni consigli, ma poi il loro è soltanto uno scandaloso moralismo inaccettabile». Ha anche ragióne, il monsignore, e deve sapersi coccolare le sue pecorelle; forse, il breviario avrebbe dovuto suggerirgli altre parole. Però qui fanno 41 gradi all'ombra, e ieri ce n'erano 46 a New Delhi. A queste temperature, il cervello frigge. Il ministro col baffo bianco si rifiuta di annunciare che, ora che Paki-stàn Paki-stàn è diventato nucleare, è anche finito il tempo delle bombe. «Abbiamo un programma, non mi pare che si possa arrestare», dice Gohar Ayub. «E i nostri missili ora possono portare testate nucleari». L'orgoglio atomico strappa un sorriso soddisfatto anche al ministro, tre settimane fa quel sorriso lo aveva il suo corri¬ spondente indiano. Il test nucleare ha ricostituito la parità; i muscoli hanno Sorella Bomba da una parte e dall'altra della frontiera; ora si dovrebbe poter passare al tavolo del negoziato, questi e quelli si dicono pronti a firmare il trattato antiproliferazione nucleare. Ma la crisi è soltanto all'inizio. Nessuno sa come finirà per davvero. Tanto più che una differenza comunque resta. Quando, l'altro ieri, Sharif diceva dal televisore che aveva scelto «il cuore e non la pancia», voleva cominciare a ricordare al suo popolo che sta per arrivare il tempo amaro delle difficoltà. Il test nucleare significa sanzioni economiche dalla comunità internazionale, gli Stati Uniti, il Giappone, l'Unione Europea, ma anche la Banca Mondiale e il Fondo Monetario. Altro che Paki-stàn Pakistàn, qui bisognerà stringere la cinghia di almeno due buchi, me questi buchi sarà assai difficile trovarli. Le pance sono già vuote. E ieri notte Sharif ha dichiarato lo «stato di emergenza», cioè la sospensione delle garanzie costituzionali. «Bisogna affrontare un periodo difficile», ha spiegato, e la gente ha capito subito che cosa volesse dire. Ha chiuso le banche e la Borsa; la Borsa era andata sotto già del 14 per cento, e le banche restano a porte chiuse fino a lunedì per impedire il torrente della fuga dei capitali (i dieci miliardi di dollari sistemati nei conti privati dei pachistani che possono). La differenza è che, mentre per il povero e piccolo Pakistan le sanzioni sono una mannaia severa, per la povera ma gigantesca India le sanzioni toccano appena il 5 per cento dei suoi conti economici. E New Delhi non ha alcun bisogno di prepararsi al «periodo difficile» con la legge marziale. Però il piccolo Pakistan non è solo. «Contiamo sull'aiuto dei Paesi fratelli», ha detto ieri Sharif. E nelle cancellerie di mezzo mondo un brivido ha scosso ministri e ambasciatori. Perché per ora stiamo tutti qui con il fiato sospeso a vedere come finisce questo drammatico braccio di ferro tra i popoli che affollano le pianure e i deserti e le giungle a Sud dell'Hindu Kush, ma sappiamo già che l'esplosione sotterranea dell'altro ieri ha cambiato la storia del nostro mondo assai più di quanto l'avesse fatto la bomba indiana 17 giorni fa: in un pezzo arso e vuoto di montagna tra l'Iran e l'Afghanistan, l'altro ieri è nata infatti la «Bomba Islamica», e i «Paesi fratelli» ai quali Sharif ha già teso la mano vuota dall'Atlantico alla Mezzaluna sono una delle realtà più contraddittorie e instabili del millennio che si chiude. Può anche essere che non sia verificabile la teoria del professor Huntington che il Duemila sarà il tempo dello scontro delle civiltà, ma certo la minaccia della Bomba Islamica in un contesto di tensioni fondamentaliste apre uno spazio militare che appare difficile sottoporre al controllo della razionalità. Asis e la sua bandierina raccontavano soltanto le amare illusioni di una vita fatta di sale; però l'Iran e l'Iraq sono a un passo da qui, e nemmeno Israele è lontana. L'orologio del tempo si è rotto, lo hanno rotto. Ieri era venerdì, che per i musulmani vale come la domenica dei cristiani, e le moschee si sono riempite come non mai. Sotto le grandi cupole bianche, le parole dei mullah e degli imam hanno parlato di orgoglio e di giustizia e tutti se ne stavano seduti sui tappeti, ad ascoltarne, attenti, il rimbombo. Nelle moschee fa anche fresco, il sole dannato di questa stagione se ne resta fuori, a cuocere le strade. Poi il sole è calato, e la festa è ricominciata. Paki-stàn Paki-stàn gridava la gente, e aspettava l'annuncio della sesta esplosione. Quest'Asia che doveva essere l'ombelico del mondo nuovo ha la stessa grigia faccia del mondo vecchio. Mimmo Candito Il ministro degli Esteri «L'altra notte New Delhi stava per lanciare un attacco aereo contro i nostri impianti, gli abbiamo puntato contro i nostri missili Ghauri che hanno una gittata di 1500 chilometri e ora possono portare testate nucleari» JjI @ COREA DEI NORD Dovrebbe avere più di 12 bombe. Ma le informazioni non sono precise CINA 434 bombe (27 ICBM. 86 IRBM, 12 SLBM, 150 aviotrasportate,, più altre 159) INDIA 60 e più bombe, 100 missili, 245 bombardieri nucleari PAKISTAN 15-25 bombe, 58 missili, 34 bombardieri nucleari IRAN non ha testate, ma sta sviluppando la tecnologia nucleare ISRAELE più di 100 testate (non riconosciute ufficialmente), 100 missili {notizia ufficiosa), 255 bombardieri SULLA SOGLIA DELLA DISTRUZIONE @l test eseguiti da India e Pakistan hanno messo in grande evidenza il problema degli «Stati sulla soglia nucleare», Paesi che recentemente hanno sviluppato le loro conoscenze nucleari a dispetto decjli accordi internazionali sulla limitazione degli armamenti. • II Pakistan lancia un missile «Ghauri». .» si trarla probabilmente di una prova - per un successivo lancio con testate nucleari. Lo portata è di 1500 km. SIGNIFICATO DELLE SIGLE | #'ICBM: m -Mi balistici irifércórrftHèriK" @ IRBM: missili a media gittata 9 SLBM: missili balistici su navi o sottomarini • AVIOTRASPORTATE: bombe nucleari ■■■■■■■ fit RUSSIA KAZAKISTAN MONGOUAmm SIRIA IRAQ <9r. ■ ARABIA SAUDITA w Sostenitori del primo ministro pachistano, Nawaz Sharif (nella foto sotto), bruciano una effigie del primo ministro indiano Biliare Vajpauee, durante una manifestazione a favore dei test nucleari ieri davanti al Parlamento di Islamabad (fotoapj

Persone citate: Anthony Lobo, Gohar Ayub, Huntington, Jinnah, Mezzaluna, Mimmo Candito, Nawaz Sharif, Sartaj