Mio triste Tibet terra di tortura

Mio triste Tibet terra di tortura Palden Gyatso, il monaco scrittore Mio triste Tibet terra di tortura DROMA ALDEN Gyatso ha il cranio I rasato, braccia esili che spuntano dall'abito giallo e rosso scirro dei monaci tibetani, occhi intensi e pacifici, e il candore tipico degli uomini della sua cultura. Nella saletta del Comune di Roma, racconta senza emozione: «Il giorno più duro fu il 13 ottobre del 1990. L'autorità di Drapchi, la prigione numero uno del Tibet dove ero stato appena riportato, si chiamava Paljor, e mi conosceva bene. Per questo mi aveva subito voluto vedere. Aveva preso un bastone lungo, collegato a un filo, e cominciò a girarmi intorno. «Così continui a sostenere la libertà del tuo Tibet. In tanti anni di prigione non hai imparato niente», mi diceva. Cominciò a schiacciare il bastone che emetteva scintille sul mio corpo, che sussultava a ogni scossa. Poi me lo mise in bocca, due volte, rompendomi tre denti. Lì per lì svenni dal dolore e quando mi risvegliai mi accorsi che avevo perduto urina, feci e la bocca era piena di sangue. Non so quanto tempo ero rimasto così. Gli altri denti mi caddero poco tempo dopo. Ci ho messo settimane per riuscire a mangiare cibo solido». Chissà quante volte ha ripetuto questa e altre storie raccapriccianti della sua detenzione, durata 33 anni, nelle prigioni cinesi. La prima volta aveva 27 anni, era già monaco, e si era rifiutato di «confessare» che il suo maestro, un grande Lama per il quale provava devozione, era una «spia indiana», come volevano fargli ammettere. Dal 1992, quando è riuscito a tornare libero grazie all'interessamento e alle pressioni della sezione italiana di Amnesty International, non fa che girare il mondo per raccontare le sue vicende, esemplari delle persecuzioni subite da migliaia di tibetani dall'inizio dell'oc- Palden Gyatso cupazione cinese, nel 1950. Vicende che ha raccolto in Tibet. Il fuoco sotto la neve pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer con la prefazione del Dalai Lama. Un libro suggestivo, semplice e agghiacciante, che attraversa la storia della Repubblica Popolare da Mao a oggi. Per la prima volta in Italia, il monaco sessantacinquenne è venuto anche al Salone del Libro di Torino, portandosi dietro il corredo di strumenti di tortura che è riuscito a trafugare: manette di varia forma, e quegli stram' «bastoni che fanno scintille», «costruiti in Gina ma anche in Inghilterra». Gyatso racconta di monache e ragazze violentate dai carcerieri anche con quegli strumenti. «Molte sono morte, altre sono riuscite a fuggire a Dharamsala», la città ai confini indiani dove riparano gli estui tibetani. «La Cina vorrebbe negare al mondo ciò che ha compiuto e compie, nega persino che io sia stato in prigione, ma io ho qui il certificato che mi hanno rilasciato le autorità», dice, mostrando un foglio con firme e bolli. «Loro negano tutto, anche le uccisioni sulla piazza Tienanmen. Ma il passato è passato. Adesso si deve pensare al futuro del Tibet». E lascia la parola ai Verdi che hanno organizzato questo incontro. E che hanno convinto il Consiglio comunale ad approvare un ordine del giorno che chiede al sindaco Francesco Ruteni - che proprio oggi incontra il sindaco di Pechino - di concedere uno spazio per una rappresentanza del governo tibetano in esilio. E di adottare un giovane tibetano imprigionato senza motivo, come hanno già fatto New York e Strasburgo. E come faranno forse 136 Comuni del Lazio. «Perché i tibetani incarcerati non si sa quanti siano - aggiunge Gyatso - ma certo sono migliaia». Maria Grazia B. tizzone Palden Gyatso