Intrisi d'intimismo

Intrisi d'intimismo Toni soffusi e voci sommesse, gli artisti ripiegano nel privato Intrisi d'intimismo IN arte gli spregiudicati, cialtroni Anni Ottanta han passato la mano ai sommessi Novanta. Finita l'era delle voci stentoree - tutte di facciata - s'arriva ai lamenti interiori, ai toni soffusi, al patetismo. Lo scintillante ha ceduto al modesto, il sovradimensionato al defilato. Dopo l'epoca della politica e l'avvento negli Anni Ottanta di quella economica, in arte l'han fatta da strapadrone strategie cultural-commerciali mutuate dalla pubblicità e dalla comunicazione e, soprattutto, dal mercato borsistico. Son saltati così i vecchi principi, quelli dei lunghi tempi di maturazione dei valori e dei prezzi, si son costruite istantanee reputazióni e fortune. Son gli anni in cui l'arte pratica le strade nella massima visibilità per raggiungere il massimo successo possibile, si lascia la schiavitù della presenza nei luoghi deputati per espandersi nel sociale con le medesime strategie buone per la diffusione delle merci. Allora diventa arte anche il saper esibire l'arte, lo è la capacità nuova di rivolgersi in maniera convincente ad un pubblico etero¬ geneo, espanso, lontano dalle consuete sparute élites dell'avanguardia. L'arte vive la sua visibilità sociale, ha la funzione di riverberare il successo che lega artista mercante e collezionista in un unico indissolubile triangolo. Si scardinano così i consueti ruoli di tutti gli attori del sistema. L'artista punta ad un Master in Business of Art e disdegna il tirocinio negli studi di anziani colleghi, il critico-studioso si muta in critico-manager, i Musei s'adoperano a promuovere valori nuovi anziché celebrare le glorie del passato. Per Jeffrey Deitch che è il critico simbolo degli opulenti Ottanta, l'arte rappresenta una sorta di estremo bene di consumo, la subumazione dello shopping, meta arte e spettacolo. Boom economico ed acculturazione media sono il terreno su cui s'innerva l'arte negli anni dell'euforia consumistica. Il progenitore Andy Warhol si reincarna nel grande clown Jeff Koons. Jean Baudrillard ha bene evidenziato come lo star system in America sia un sistema di prodotti lussuosi la cui passione di fondo è quella dell'immagine e dei suoi desideri, feticci che han da fare con la finzione. Forse per questo Koons adora l'artificiale, il superfluo, il carino, il costoso. Mark Kostabi caricaturizza il processo creativo. Non più artista ma capitano d'industria, del planetario Kostabi Word. Un po' di talento e molta facciata sono gli ingredienti su cui fondano tra gli altri le loro fortune artisti come Julian Schnabel, Jean Michel Basquiat, David Salle, fortune edificate sull'orlo del precipizio. Persa l'arroganza, la visibilità, il luccichio, il nuovo decennio si presenta tutto intriso d'intimismo, manie e nevrosi, marginalità. Si abbandona l'idea forzata d'internazionabsmo per privilegiare le culture locali, le differenze, le difese etniche e territoriali. 11 rapporto con la vita, con l'esistere diviene un rapporto col personale, col privato, l'arte ora - abbandonati i criteri grandiosi di alte tecnologie ed alti costi - si fa in casa con avanzi, con gli scarti del quotidiano. Anche la promozione delle opere è adesso affidata a mercanti improvvisati, senza galleria né uffici alla maniera di Kenny Schechter che affitta un paio di camere in alberghi da poco, telefona ad artisti amici che improvvisano opere con quello che c'è ed invita con annunci economici collezionisti di buona volontà a comprare opere il cui valore oscilla tra i cento e i mille dollari. Arte che rischia il fallimento, arte che si manifesta in linguaggi e modi che dal fallimento traggono la loro poetica. Siamo all'arte del patetismo, quella che risponde al fallimento dell'arte come successo con il corteggiamento dell'insuccesso, la messa in evidenza sotto tono delle trappole in cui l'artista si dibatte. Artisti tragicomici, insicuri, disillusi come Mike Kelley o Cadey Noland, Kiki Smith, Robert Gober o David Hammons. Artisti noncuranti del politically correct, artisti che si mimetizzano tra le pieghe del sociale, che ignorano il sistema dell'informazione, che trasmettono il senso di sottostima in cui sembrano tenere la propria persona e la propria opera. Il critico americano Joshua Decter sostiene che la stupidità è il destino dell'arte, una sorta di vocazione culturale che consisterebbe nel rimando all'infinito della stagione adulta, il desiderio di stazionare perennemente in una sorta di stato adolescenziale consumato in atteggiamenti vacui, marginali, banali. Ma gli Anni Novanta mi pare rilevino, a ben guardare, una doppia anima, una sorta di seconda attitudine - da dimostrare e sostanziare - che nulla ha da spartire con l'idea d'arte come spettacolo o di arte come piagnisteo. Si tratta di un'attitudine che attraversa il secolo, dallo Jugendstill sino a noi, un atteggiamento di positività diffusa in cui l'artista si propone come attento mediatore delle due sfere di cultura alta e bassa. Non super star o genio frustato ma lucido interprete dei bisogni del visivo con scorribande che vanno dallo specifico - le opere uniche e tutto il resto - fino ad invadere le discipline affini. L'idea di fondo potrebbe esser quella per la quale il compito dell'artista non consista tanto nell'infarcire un mondo vecchio di più o meno geniali oggetti nuovi ma utopicamente di contribuire a rifare nuovo l'intero universo. Ugo Nespolo

Luoghi citati: America