ANNI 90 l'arte timida

ANNI 90 l'arte timida Tra riscoperta del corpo e nuova manualità è deludente il bilancio del decennio che si chiude. Intervista con Gillo Dorfles II SMILANO I chiama Untitled, senza ti Itolo, una delle installazioni artistiche che hanno fatto più discutere negli Stati Uniti, da quando è visibile al Museum of Contemporary Art di Los Angeles. L'autore, Robert Gober, è considerato ima delle grandi stelle degli Anni 90. Ma il lavoro di Gober (una statua della Madonna nel cemento) ha lo stesso «titolo» che sceglie per il suo romanzo impubblicabile il protagonista negativo di un celebre libro di Martin Amis, L'informazione. Una metafora dell'impotenza: è una prima coincidenza. Sarà davvero «Senza Titolo» l'etichetta che gli storici dell'arte applicheranno agli Anni 90, a quel confuso movimento che qualche tempo fa il New York Times in una vasta inchiesta definiva «una decade di voci sempre più quiete», dedicando medaglioni a Matthew Barney e a Kiki Smith, quasi un emblema di questa attitudine? Kiki Smith è un'artista di 43 anni venuta fuori nei Novanta con sculture che raffigurano esseri umani in condizioni agghiaccianti, ad esempio sbudellati. Ma le sue ultime opere, che hanno anche significato un salto dei prezzi da 50 a 125 mila dollari parlano di dolcezza e nidi di uccelli. Lei, che ha una sorella morta di Aids alle spalle, spiega che tutto quell'alcol, quella droga e quell'ansia di denaro degli Anni 80 sono un incubo dimenticato solo in nome di una «ricca vita interiore» e di una «esistenza più libera». E spende il suo tempo lavorando con gli artigiani di Santa Fe o di Murano, per fare ceramiche e vetri soffiati. Seconda coincidenza: proprio di questi tempi l'artigianato è uno dei temi più cari a Gillo Dorfles, estetologo (oltre che di nuovo artista in proprio) e grande critico dell'arte e del costume. Anzi, per Dorfles le vere novità che stanno prendendo corpo alla fine dei Novanta sono proprio, ci si scusi il gioco di parole, l'attenzione al corpo come strumento di comunicazione estetica e, parallelamente, il ritorno della «manualità», ovvero l'artigianato «elitario» che si contrappone, essendo prezioso, raro e costoso, agli oggetti del design industriale. Da una parte ceramiche e tappezzerie, legni vetri o alabastri o mosaici, dall'altra il design stesso che abbandona la sua freddezza per riscoprire l'ornamento. Dorfles, il Duemila sarà il trionfo della manualità? «Può darsi. Arrivati al punto culminante della computerizzazione artistica, il bisogno di tornare a un contatto più diretto con i materiali naturali sembra ovvio. E poi si vede proprio il grande settore del design che sente in qualche modo il bisogno di rivendicare le sue origini artigianali». Ma davvero può essere considerata una linea di tendenza? «Direi che è un fenomeno più grosso di quel che si pensi. Basta guardare alle ultime edizioni di "Abitare il tempo", l'importante fiera del design che si tiene a Verona, per rendersene conto. E abbiamo già esempi molto interessanti: come i mobili eseguiti a mano di Ugo Marano, o le sculture di viinini realizzate da Gaeti, un artigiano di Cantù». Spie di un mondo a venire, o di un mondo che finisce? «L'arte ha avuto, dalla fine della guerra in poi, una sua periodizzazione precisa: l'informale, poi la pop art, il concettuale, e dagli Anni 70 la body art e la land art, l'arte del corpo e del paesaggio. Indubbiamente col finire degli Anni Ottanta c'è come una stasi, quasi una forma di insterilimento dell'invenzione artistica. Non è detto che sia sempre necessario essere "inventori", beninteso. Però la mia impressione è che gli artisti si siano in qualche modo ripiegati sul già fatto». Un decennio ripetitivo? «Sì, abbiamo rivisto il pop, il concettuale, soprattutto la body art». Ma lei non citava l'attenzione al corpo come segno di novità? «Distinguiamo. Il corpo degli Anni Novanta è arte dell'orrore, gente che si tortura con ferite vere o simulate, masochismi più o meno intelligenti». E su questo lei dà un giudizio negativo. «Anche sull'esibizione, parallela, di "cose" inutili, rifiuti, oggetti degradati... Pensi alla mostra di Trento dedicata al "Trash", ovvero "H rifiuto diventa arte", dove accanto a capolavori di prim'ordine c'erano dei "rifiuti" autentici"». O alle polemiche che hanno accompagnato l'ultima Biennale di Venezia. «Diciamo che l'ultimo decennio del secolo è piuttosto deludente, quanto a iniziative nuove. Gli unici Paesi dove si vede ancora una forte volontà ad esempio di dipingere e scolpire sono nell'America Latina. Troviamo dei pittori, là, ma proprio perché sono "arretrati". E' quel che succede col romanzo, del resto. Cent'anni di solitudine non era "arretrato", ottocentesco, rispetto alla cultura europa che intanto era passata attraverso le avanguardie? Detto questo, può darsi che alla fine del millennio ci sia proprio una ripresa delle forme tradizionali del dipingere e dello scolpire». Che lei vede con favore? «No, il ritorno alle forme tradizionali non può che essere la riscoperta degli strumenti ma per fare cose nuove». Un decennio deludente, trash, magari intimista come suggeriscono gli americani? «Intimista non direi, semmai "estrinsechista". C'è un'esibizione degli oggetti». Spesso inerti. E quali sono invece le cose «vive»? «Il design, la moda, la pubblicità, le forme di arte che attraversano i media elettronici. Solo che non bastano a sostituire l'arte. Ecco perché dico che potrebbe esserci un'invasione "sudamericana"». Abbiamo elencato molti motivi di perplessità. Potremmo aggiungere che i «grandi vecchi» sono tutti morti. «Quasi tutti, da Fontana a Bacon, da Capogrossi a Rothko. Abbiamo ancora Rauschenberg, che però era più interessante negli Anni 70. Da Documenta, la rassegna di Kassel, alla Biennale di Venezia, si è vista poca creatività, quasi che l'artista avesse toccato una sorta di punto morto. E in quest'ultimo decennio è stato difficile fare mostre di giovani che siano risultate davvero attraenti. La transavanguardia ha avuto vita breve, l'arte povera vive di rendita. Artisti come Pistoletto o Kounellis, Mertz o Paolini, ripropongono quel che facevano 20 anni fa». Si chiude un decennio minimalista. «Untitled». Che cosa gli è mancato? «In una parola?». In una parola. «Il ricambio». Mario Baudino «Da Documenta, la rassegna di Kassel, alla Biennale di Venezia, si è vista poca creatività, quasi si fosse toccato un punto morto» «Pistoletto, KounellisoMertz ripropongono le stesse cose di 20 anni fa e ha avuto vita breve anche la transavanguardia» II ': ■: :::::::: .■ '■ ■■: Qui accanto, «Untitled» di Robert Gober; più a destra, «Cremaster S» di Matthew Barney ANNI 90 l'arte timida

Luoghi citati: America Latina, Cantù, Los Angeles, Santa Fe, Stati Uniti, Trento, Venezia, Verona