1998, il Miracolo Africano

1998, il Miracolo Africano Ottimismo alla conferenza interparlamentare a Wìndhoek nonostante Congo, Ruanda e Sudan 1998, il Miracolo Africano Democrazia e sviluppo alla svolta REPORTAGE LA NUOVA ALBA DEL CONTINENTE SWINDHOEK E là sera si ascolta alla radio il programma Focus che la Bbc londinese dedica all'Africa, potrebbe sembrare che nel continente non ci sia nulla di nuovo. La fitta rete di corrispondenti dai Paesi sub sahariani, quei Paesi neri che si distinguono da quelli arabi che si affacciano sul Mediterraneo, trasmette le solite notizie cui siamo assuefatti dai tempi del Biafra e dell'Angola, delle carestie in Etiopia e Somalia e del genocidio in Ruanda: scontri tribali, deportazioni, torture, dispute di confine, sabotaggi, scioperi, stupri, e come non bastasse anche calamità naturali come inondazioni e incendi. Se invece si ascolta la voce dei politici africani, dei rappresentanti eletti di quasi tutti i Paesi a Sud del Sahara riuniti in Namibia per una conferenza interparlamentare, l'impressione che si ricava è diversa. Parlano di una «nuova era», del «rinascimento dell'Africa», di un continente dove si cercano nuove soluzioni, si fanno esperimenti poco conosciuti nel resto del mondo ma che cominciano a dare i loro frutti come indicano queste cifre: sui 48 Paesi dell'Africa nera 23 hanno già affrontato elezioni più o meno democratiche ed una trentina sembrano avviati ad una concreta liberalizzazione delle loro economie; negli ultimi tre anni i Paesi sub sahariani hanno avuto un tasso di sviluppo del 4,6%, superiore al tasso di incremento demografico del 3%, il che si traduce in un reddito pro-capite crescente dopo anni di declino. Uno studio del giovane economista americano Jeffrey Sachs, che si è già cimentato nell'assistenza ai governi polacco e russo, documenta che l'Africa sta uscendo dal baratro in cui era sprofondata, con alcuni Paesi che ottengono risultati brillanti. Non si parla certo di emulare i successi di quelle che prima della crisi attuale venivano definite le «tigri asiatiche», ma se l'Africa riuscisse ad attirare anche solo una parte degli investimenti profusi in quei Paesi potrebbe diventare attorno al 2020, quando la sua popolazione raggiungerà il miliardo, un mercato di grande interesse. All'origine di questa evoluzione c'è una nuova generazione di leader africani pragmatici che tendono a sostituire le precedenti dittature con governi tendenzialmente democratici, convinti che la stabilità dei governi ed il rispetto della legalità sono oggi condizioni indispensabili per il progresso economico. Ecco quindi che si cominciano ad intravvedere politiche economiche basate non più sulla pianificazione centrale sotto stretto controllo statale ma sugli incentivi agli investimenti privati e su sistemi fisca¬ li più corretti. Certo molti dei tradizionali problemi ancora incombono: infrastrutture insufficienti, scarso risparmio, burocrazie inefficienti, mancanza di mano d'opera qualificata. C'è una catena di Paesi che parte dalla Sierra Leone e attraversa il centro dell'Africa con il Congo, il Rwanda, il Burundi per finire con la Somalia, a cui poi bisogna aggiungere il Sudan, la Nigeria, il Kenya dove non si vede parvenza di quello che noi potremmo chiamare uno stato o un'economia organizzata o un sistema democratico. E ci sono governanti che utilizzano un'apparenza di democrazia come grimaldello per arrivare al governo, e poi non mollano, perpetuando il loro potere, come Daniel Arap Moi in Kenya. Quando Laurent Kabila cacciò il corrotto Mobutu Sese Seko dal Congo ci fu un senso di sollievo nelle cancellerie europee: oggi Kabila si comporta in maniera non molto diversa dal suo predecessore. E così il presidente dello Zambia, Frederick Chiluba, salutato come un rinnovatore democratico nelle elezioni da lui vinte nel 1991, lo scorso Natale ha sbattuto in prigione il suo predecessore Kenneth Kaunda. D'altra parte elezioni corrette non sono sempre sinonimo di buon governo. In Africa i partiti tendono a formarsi secondo linee etniche e le elezioni sono state sovente cause di guerre civili. Un leader rispettato e carismatico, anche se non proprio democratico, come il presidente dell'Uganda Yoweri Museveni sostiene che le istituzioni politiche nel continente sono così fragili e le divisioni etniche così forti che i vantaggi della democrazia sono pochi, tanto che ne ha escogitata una formula particolare in cui non esistono partiti, e i candidati si presentano come espressione di se stessi. Questa divisione fra Paesi «buoni» e «cattivi» è emersa plasticamente nell'itinerario seguito dal presidente Clinton nel suo viaggio alla fine di marzo in Africa, dove ha voluto «premiare» con la sua presenza i Paesi che dimostrano di voler rompere con il passato. E deliberatamente ha escluso i tre Paesi più grandi del sub-Sahara, Congo, Nigeria (che invece è stata visitata negli stessi giorni dal Papa) e Sudan, proprio perché violano le regole democratiche. Il suo viaggio, il più lungo della sua presidenza, potrebbe aver segnato una svolta nella politica americana nei confronti del continente. Washington sembra essersi convinta che è meglio integrare l'Africa nell'economia mondiale piuttosto che dover intervenire per sedarne le crisi. Ufficialmente si parla di un passaggio «dal paternalismo e dall'indifferenza ad un partenarìato basato sul rispetto ed il reciproco interesse». Un interesse sostenuto da un mercato di 700 milioni di consumatori potenziali, da una produzione petrolifera che si avvicina ai 5 milio¬ ni di barili al giorno e da una terra ricca di opportunità che finora è stata ignorata dagli Stati Uniti. Basti pensare che l'aiuto americano ai Paesi dell'Africa nera si era ridotto nel 1997 a 700 milioni di dollari, il livello più basso degli ultimi 10 anni, mentre il solo Egitto riceve 2 miliardi di dollari. Il nuovo vigoroso interesse americano per l'Africa lascia presagire che fra non molto gli Stati Uniti potranno diventare la principale influenza straniera in Africa, prendendo il posto della Francia e dell'Inghilterra che sembrano perdere interesse per il continente. Ma non tutti vedono quest'influenza di buon occhio. Sam Nujoma, presidente della Namibia dopo aver guidato per molti anni la guerriglia della Swapo contro il Sud Africa, oggi è amico di Nelson Mandela e governa un Paese stabile che rappresenta un modello di democrazia nel continente. «L'America ha grandi ali e vorrebbe coprire tutto, come sempre, anche qui in Africa», mi dice con ironia a Windhoek, capitale della Namibia, nella sua residenza presidenziale, contornata da moderni grattacieli e da edifici chiaramente datati dall'era coloniale tedesca. Dalle sue parole traspare la riconoscenza verso i Paesi comunisti, soprattutto Cuba e Urss, che l'hanno aiutato a conquistare il potere, ma cerca di non lasciarla trapelare. Ogni tanto gli scappa qualche «compagni», o un giudizio azzardato, quando per esempio definisce Cuba «uno straordinario Paese comunista dove si vive bene, dove anche in proporzione ci sono meno poveri che in Usa». Ma poi si corregge e riconosce che gli americani di oggi sono diversi da quelli di un tempo e manifestano nei confronti degli africani un atteggiamento più amichevole. «Stiamo come cominciando da capo. Stiamo ancora cercando di cancellare i danni del colonialismo che ha lasciato la nostra popolazione senza istruzione, senza strutture sanitarie, senza futuro. Il futuro stiamo cominciando a costruircelo, ben vengano anche gli americani». Il presidente del Mozambico Samora Machel, che salito al potere spaventò con le sue posizioni oltranziste la popolazione bianca del suo Paese inducendola ad abbandonarlo, qualche anno più tardi, poco prima di morire in un incidente aereo, consigliò a Sam Nujoma: «Keep your whites», tienti i tuoi bianchi, non li spaventare anche se non ti piacciono, perché se vanno via il Paese crolla.»E Sam Nujoma, come molti altri leader africani più illuminati, sta seguendo questo consiglio. Jas Gawronski Una vivace immagine d'un mercato africano e in alto il leader namibiano Nujoma Il consiglio di Nujoma, presidente della Namibia «Fate come noi Tenetevi i vostri bianchi se volete prosperare» Elezioni libere in 23 Paesi su 48 E il tasso di sviluppo economico (4,6%) supera per la prima volta quello demografico