« Mi sono riconosciuto» di Simonetta Robiony
« Mi sono riconosciuto» « Mi sono riconosciuto» Nedo Fiano, sopravvissuto al lager LROMA A vita è bella» è una favola. Roberto Benigni l'ha detto e ripetuto infinite volte perché non nascessero equivoci sull'interpretazione del film. Eppure, nonostante l'intento fiabesco dichiarato, Benigni ha voluto che la ricostruzione storica degli ambienti, dei costumi, degli oggetti, perfino dei ricevimenti alla moda in quegli anni, fosse la più precisa possibile. Per questa ragione, dopo aver scritto la sceneggiatura, ha chiesto la collaborazione del Centro ebraico di documentazione di Milano, il più grande del nostro Paese, per essere aiutato a non fare errori che avrebbero potuto ferire inutilmente la sensibilità dei sopravvissuti all'Olocausto. Marcello Pezzetti è stato incaricato dal Centro di parlare con Benigni, andare a vedere il set, dare consigli. Nedo Piano e Shlomo Venezia, due ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio di Auschwitz, hanno invece contribuito con i loro ricordi alla precisione di ogni dettaglio. E Nedo Piano a metà marzo è stato al fianco di Benigni per presentare il film agli studenti del liceo Manzoni, una presentazione ripresa dalle telecamere di «Format» e trasmessa daRaitre pochi giorni fa. Com'è successo che lei, Fiano, sia finito sul set di Benigni? «Me l'ha chiesto il Centro di documentazione. La mia collaborazione, in realtà, è stata assai modesta. Volevano che le divise indossate da noi ebrei nei campi, i colori, i gradi, fos- sera esattamente uguali a quelli che i nazisti ci avevano messo addosso nei campi di sterminio. Mi fu spiegato che Benigni, per rispetto alla memoria della Shoa, intendeva evitare sbagli grossolani». Che tipo di sbagli? «Ma, nel film-tv "Holocaust", per esempio, venivamo mostrati i prigionieri che suonavano nell'orchestra di Auschwitz vestiti con abiti sbrindellati e laceri, mentre nella realtà in¬ dossavano abiti ricercati e di straordinario nitore». Qual è stata la sua prima reazione? «Ero perplesso. Temevo che Benigni volesse fare una comica e non intendevo collaborare. Poi l'ho conosciuto e ho capito che, come tutti i veri comici, Benigni è un uomo serissimo. Per di più è di Prato ed io son di Firenze, ci siamo intesi subito. Quando ha visto il film la prima volta? «All'anteprima milanese fatta per la comunità ebraica il 15 dicembre: come molti ho pianto. Mi dispiace solo che alcuni di noi non l'abbiano capito, anzi abbiano accusato Benigni di aver voluto sfruttare la Shoa. Ma mi dispiace per loro, più che per Benigni: vuol dire che sono dei poveri di spirito. Come Chaplin, infatti, Benigni ha realizzato un film che è un inno alla poesia e alla creatività umana, congiungendo comicità e tragedia». Lei ha dato anche un contributo alla sceneggiatura? «No, ma mi sono riconosciuto in un episodio. Quando arrivai ad Auschwitz ero giovane, sano, e parlavo il tedesco perché mio nonno mi aveva forzato ad impararlo sostenendo che avrebbe potuto essermi utile. Nel film, all'arrivo nella baracca, Benigni si offre come interprete, improvvisando un monologo surreale molto buffo. Anche a noi, appena giunti nel campo, fu chiesto chi parlasse il tedesco e molti si presentarono nella speranza di essere scelti, proprio come racconta Benigni. Mi ricordo che, in quel momento, ebbi la sensazione che fosse mio nonno a spingermi avanti. Andai. Mi chiesero dove fossi nato. Risposi che ero di Firenze. L'ufficiale delle SS cominciò a parlare delle bellezze della mia città. Rispondevo a tono. Fui reclutato. Poi, siccome avevo una bella voce, mi utilizzarono anche per cantare, ogni sera, canzoni italiane. Fu la mia salvezza: sono l'unico sopravvissuto della famiglia». Simonetta Robiony II piccolo Giorgio Cantarmi in una scena de «La vita è bella» «Quando ho accettato ero un po' perplesso ma ho capito presto la serietà del progetto»
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