L'uomo che parla del dolore di Paolo Guzzanti

L'uomo che parla del dolore L'uomo che parla del dolore La forza di un Pontefice minato dal male LA RIMA PAGINA TORINO OPO la mattinata dei beati a piazza Vittorio, tornando in via Roma mi sono quasi imbattuto nella papamobile, quella macchinuccia che sembra fatta di Lego e che conteneva il Pontefice polacco (così poco «romano», a ben guardare). La folla che lo chiamava e lo applaudiva era fatta di giovani, ragazzHn jeans. Poi sono tornato verso piazza Vittorio per fendere la folla che rientrava lungo via Po e guardare in faccia quel popolo di pellegrini, di papisti che sono qualcosa di più e di diverso dei semplici cattolici (Wojtyla, come Roncalli, ha i suoi fedeli, moltissimi dei quali fra non credenti e miscredenti, attirati dal suo fascino) e non facevo che cercare il volto comune fra quelle facce comuni. E l'armata del Papa (oggi nessuno chiederebbe mai, come fece Stalin riferendosi ironicamente a Pio XII, «quante divisioni ha il Papa») aveva il suo volto comune in una certa allegria, quella faccia senza vergogna che avevamo già visto intorno a lui a Parigi: e quale ovazione ha sollevato dalla folla quando ha ricordato quell'incontro. Il Papa nella sua automobilina da Papa, diretto alla colazione con Romano Prodi, non sorrideva. Osservava. Sembrava lui il giornalista. Guardava e prendeva nota mentale. L'ultima volta che l'abbiamo visto sorridere fu quando a Cuba commentò la frequenza degli applausi dicendo: «Fate bene a battere le mani, mi è utile. Voi applaudite e il Papa si riposa». Alluse allora alla fatica, alla pena di cui non parla mai e che è la sua. La pena delle sue malattie misteriose, del suo intestino artefatto, dei suoi virus feroci, delle sue ossa fragili, dei tormenti della deambulazione, della durezza del parlare. La sua fronte è, nella vecchiezza, più tondeggiante, come se la corteccia cerebrale che protegge volesse farsi protuberante. E sotto quella fronte sono fermi occhi vinti. Affossati. Ma vivissimi e anzi del tutto disinteressati alla mobilità esterna perché mobilitati dalla furia intellettuale interna. Il Papa dosa le parole sincronizzandole con un respiro affaticato. Fa un uso atletico di un corpo che gli hanno scardinato con la violenza. E' il papamobile di se stesso. Quest'uomo che sembra vinto, è un duro. Un duro con se medesimo. E con gli altri. Sono passate in fondo poche ore da quando ha ribadito la posizione della Chiesa sull'aborto. E ancora una volta la sua posizione etica, che si può condividere o respingere, è stata valutata con parole politiche: che cos'è tutta questa intransigenza sui princìpi? Non è la tolleranza e il compromesso alto la virtù maggiore? A questo genere di critiche Wojtyla ha risposto indirettamente oggi in Cattedrale: La Chiesa, ha detto, si rimette alla scienza e agli scienziati per tutto ciò che non riguarda la verità di fede, compresa la Sindone. Vedano, gli uomini di scienza, se e come possono rispondere alle domande e ai dubbi. Ma nel territorio dell'etica dettata da Dio, che è il campo della fede, il compromesso non è un valore e anzi non è semplicemente. E del resto, dal suo punto di vista, la sofferenza dell'uomo ha assunto molteplici e ben visibili forme: quelle di ogni uccisione e tortura, di ogni soppressione, in definitiva della sofferenza. In fondo il cristianesimo è pur sempre una religione che ha scelto come proprio simbolo il patibolo, come proprio Dio un giustiziato e come iter religioso il cammino della tortura. Per questo appariva ieri tutto sommato fantastico che queste decine di migliaia di persone sciamassero con un visibile tasso di allegria che a quelli della mia generazione (che ricordano l'infanzia cattolica negli Anni Cinquanta come un buio calderone di guerra fredda, anatemi, scomuniche, rancori, bestemmie, apparizioni di madonne pellegrine più rissose che gentili) sembra alquanto bizzarro, rassicurante ma bisognoso di spiegazioni. Del resto ieri le immagini della piazza e quelle trasmesse rivelavano la grandiosa novità dei colori scelti dal pontificato di questo Papa: colori, netti, uno scioccante verde prato sottomesso a un blu marino appena uscito dal tubetto. E le vesti del clero sono tutte bellissime e nette, di colori tenui o carichi, ma definiti e non incerti. Il contrario della Chiesa dei paramenti che in cangianti versioni dei viola e dei neri turbavano l'animo di chi già era afflitto dal trionfale barocco gravato da stucchi, putti, cuori troppo trafitti, simboli di varia cupezza. Il Papa, questo Papa, non ama la cupezza, né le contorsioni logiche. Ama la testimonianza. Gli piace esserci, dire, essere scomodo con sovietici (finché ce ne furono) e americani, agrodolce con Fidel e - lui che è un consapevole responsabile del trionfo del capitalismo sul comunismo - sferzante contro la società degli eccessi, dell'egoismo, del denaro, dell'amnesia. Lo abbiamo visto di nuovo ieri davanti alla Sindone «il prezioso lino che può esserci di aiuto», l'impronta di un uomo dalle mille ferite, che sono le stesse identiche ferite dell'uomo che ha scelto di subirle per riscattare l'umanità intera. Per chi non è cristiano non è affatto facile comprendere la ragione profonda di questa terribile partita di riscatti, di giganteschi sacrifici e di spostamenti di sofferenza da molti esseri umani a uno che se ne fa simbolo e portatore. Ma se non è facile capire, è tuttavia molto facile vedere come questo essere umano giunto alla fine della sua vitalità fisica a causa delle violenze che si è chiamato addosso, se ne stia perfettamente solido e composto, elegante e fragile, essenziale e limpido, testimone e attore della sua verità, incapace di modificarla per motivi di «politically correetness» tanto ieri quanto oggi. Visto con occhio modernista, o illuminista (ed è l'occhio in questo caso del cronista), la determinazione con cui il Papa accusa il mondo sviluppato, tecnologico e ricco, sembra un po' eccentrica: in fondo, malgrado le mille piccole guerre stiamo pur sempre vivendo un promettente periodo di pace e prosperità nel rispetto. Ma non è questo il punto: il punto è che il capo del cattoli- cesimo è riuscito a fare della sua intransigenza uno strumento di coesione, perché non è una intransigenza su dogmi astrusi o su questioni teologiche. La sua intransigenza riguarda sempre la dignità dell'uomo, il rispetto della creatura umana in ogni condizione fisica, mentale ed economica. La sua commozione davanti alla Sindone è quella di chi non in-* tende sottolinearne il carattere divino, quanto quello umano: l'uomo del lenzuolo, ha detto in buona sostanza Wojtyla, è secondo noi certamente Gesù detto il Cristo, ma è prima di tutto un uomo che ha ricevuto cento colpi di frusta, cui hanno spaccato la faccia, rotto il naso e un labbro a pugni, che è stato sottoposto all'umiliazione, fatto passare fra ali di folla, costretto a portare il patibolo in spalla come milioni di condannati a morte che hanno dovuto trascinare la pala per scavarsi la fossa. Durante la meditazione che ha seguito l'omelia questo antico essere umano si è assorto. E' capace di separarsi dal corpo e lo ha fatto di nuovo. L'abisso in cui si è educato a scendere è probabilmente non diverso da quello che tutte le grandi tecniche della meditazione permettono di raggiungere. La sua capacità di immergersi in questa apnea per concentrarsi totalmente è nota. Ieri era uscito dal suo corpo che era rimasto lì, seduto con gli occhi spenti e chiusi. Soltanto un minimo, impercettibile movimento del labbro superiore testimoniava della sua coscienza. Poi ha ripreso il governo di sé con un sussulto che si è percosso nelle spalle ed ha aperto occhi nuovi a quella chiesa gremita di persone e personalità, di berretti cardinalizi e cravatte governative, di autorità e gente comune, di memorabili donne e uomini qualunque in vestitini di cotone. Ha visto le signore assorte nelle loro vesti adatte all'occasione. Ha visto quella certa compunzione d'ordinanza che accompagna sempre le persone ufficiali in situazioni ufficiali, e i suoi occhi hanno avuto un guizzo che ci è sembrato di aggraziata ironia: «Anima Ghristi santificami», ha allora detto. E «Corpus Christi salvami». La televisione ha mostrato ancora la figura della Sindone, che ha una sua dignità diafana, trasparente, da dagherrotipo del miracolo. E poi il volto del Pontefice color rosa dei vecchi, la peluria candida che se ne va come la seta, la stoffa perfetta e preziosa del suo abito semplice e antico. Erano due volti a confronto, quello della Sindone e quello venuto dalla Polonia. La sofferenza li univa. Paolo Guzzanti Fedeli in piazza Vittorio per la Messa del Papa, sullo sfondo la chiesa della Gran Madre

Persone citate: Christi, Gesù, Lego, Pio Xii, Romano Prodi, Roncalli, Stalin, Wojtyla

Luoghi citati: Cuba, Parigi, Polonia, Torino