La solidarietà che nasce dal sangue di Francesco La Licata

La solidarietà che nasce dal sangue La lezione di Palermo: non bisogna disunirsi di fronte al comune avversario La solidarietà che nasce dal sangue IL barocco rigoglioso della navata di Casa Professa - roccaforte gesuita nel cuore della città diseredata - non è ovviamente un palcoscenico scarno ed essenziale come quello che, la sera prima di ieri pomeriggio, aveva ospitato al teatro Biondo l'assemblea «autoconvocata» in ricordo della strage di Capaci. La diversità dei luoghi, le scelte differenti (venerdì i magistrati di quello che fu il pool antimafia di Palermo, ieri le famiglie e la Fondazione intitolata a Francesca Morvillo e Giovanni Falcone), tuttavia, hanno finito per sottolineare che quei morti sono davvero di tutti. Di tutti i cittadini, di tutte le Istituzioni, dello Stato. Il nervosismo non ha avuto la meglio sulla necessità di non disunirsi di fronte al comune avversario, che rimane la mafia con tutto il suo carico di valore aggiunto rappresentato dalla capacità di penetrazione nelle coscienze e nei gangli della vita civile. Quando la cerimonia officiata da padre La Rosa entra nel vivo, Caselli sta seduto accanto ad Ayala, in prima fila vicino a Maria e Anna Falcone attaccate ad Agnese Borsellino. La disposizione può bastare per fugare ogni retropensiero su presunte irrequietezze del fronte antimafia. Così come appare rassicurante la presenza del ministro Flick, insieme coi sottosegretari Brutti e Smisi, del capo della polizia e di amici di Giovanni Falcone come Gianni De Gennaro, Ilda Boccassini, Carla Del Ponte e il direttore dell'Fbi, Louis Freeh. Certo, il colpo d'occhio della chiesa piena di commozione contribuisce a diluire qualche eccesso verbale delle ore precedenti, addolcisce il tenore delle obiezioni che puntualmente, ad ogni anniversario, scuotono la città e quest'anno potevano risultare ingigantite dagli ultimi avvenimenti e dalle polemiche che ne sono seguite. «Nervosismo istituzionale» e discussioni sfociati, a quanto pare, in un discreto dibattito interno su chi, della compagine governativa, dovesse assumersi l'onere di «scendere» a Palermo par un anniversario che la fuga di Gelli e di Cuntrera, le polemiche sull'abbassamento della guardia e della tensione antimafia avrebbero potuto trasformare in un luogo di scontro piuttosto che in occasione di ricerca di nuova coesione. Alla fine è toccato a Flick e il Guardasigilli non s'è tirato indietro, anche se comprensibilmente a disagio per doversi, per esem- pio, trovare per la prima volta a contatto col procuratore generale Vincenzo Rovello, destinatario dell'ispezione ministeriale seguita all'«incidente» del fax sulla scarcerazione di Pasquale Cuntrera. E' toccato al ministro della Giustizia, che è forse il capolinea di gran parte delle lamentazioni dei magistrati impegnati nella lotta alla mafia. Il proliferare delle iniziative commemorative, tutte autono¬ me, lasciava inoltre presagire una sorta di scarsa volontà di apparentamenti. Le diversità sono ovviamente rimaste, ma assoggettate alla volontà di non offrirsi separati alla valutazione del «nemico». Proprio come ha insegnato Giovanni Falcone, preferendo il silenzio dei piccoli passi al clamore dello scontro frontale, il confronto istituzionale sui fatti concreti allo sterile scambio di accuse. E dire che motivi di «attività sussultorie» non ne sono mancati. Venerdì sera al teatro Biondo, per esempio, il pensiero di Giovanni Falcone sulla imponente materia che riguarda la lotta alla mafia e i problemi della giustizia è stato sezionato, smontato e ricostruito su un modello che rappresenta le attuali necessità dei magistrati palermitani. Sarebbe stato facile ribaltare sui giudici che leggevano dal palcoscenico inevitabili critiche su qualche dimenticanza: il ruolo del pubblico ministero, la necessità di una sua appartenenza all'esecutivo, la separazione delle carriere, l'obbligatorietà dell'azione penale e tanti altri argomenti su cui Giovanni Falcone non era in sintonia con molti dei suoi colleghi. Ma se fosse stato vivo e presente venerdì al teatro Biondo, probabilmente Falcone avrebbe taciuto sulle divergenze, preferendo «fare quadrato» per correggere errori e ritardi istituzionali. Ed allora si sarebbe trovato d'accordo nel porre l'attenzione sulle cose da fare per ricostituire un clima e una macchina giudiziaria e repressiva forse appesantita da sei anni di emergenza. E forse avrebbe indotto all'applauso il mini- stro, proprio com'è avvenuto in realtà al Biondo quando Flick si è trovato ad applaudire Ayala, entrambi al governo, che incitava lo Stato a non abbassare la guardia. Le due giornate sono servite a puntellare la difficile azione della magistratura palermitana, chiamata a ridurre il potere di Cosa nostra in un clima non sempre favorevole, come può essere quello di una città che rischia di uscire penalizzata due volte, schiacciata dalla mafia e dai rigori della re pressione. La solidarietà è arrivata ai giudici. Anche padre La Rosa li ha «protetti», lasciandosi andare a qualche bacchettata ai politici. Un gruppo di cittadini, quelli che si identificano nei movimenti antimafia, ha voluto addirittura l'abbraccio fisico con Caselli e i suoi, organizzando un sit-in davanti al palazzo di giustizia. Rita Borsellino, sorella di Paolo, anch' egli ucciso in una strage, ha spiegato il senso della manifestazione che si è sciolta alle 17,58, alla stessa ora in cui avvenne l'eccidio di Capaci. Il procuratore, accompagnato dai sostituti, non si è sottratto al contatto coi cittadini, poi è andato a Casa Professa. Francesco La Licata Un'immagine della strage di Capaci, in cui 6 anni fa perse la vita il giudice Falcone

Luoghi citati: Capaci, Palermo