LE FONDERIE ROSSI

LE FONDERIE ROSSI LE FONDERIE ROSSI «Fu la prima volta che vidi mio padre dirigere una colata...» SE avessi seguito i consigli di mia madre - scrive Giuseppe Roccati, via Salvemini 4/c, Rivoli, telefono 011/958.16.31. - dopo le elementari dalle suore, le medie dai preti, avrei continuato il liceo con altri preti. Ma la vita e il mio carattere indipendente avevano disposto diversamente. Mi lasciai incantare dai discorsi che negli Anni 60 erano di moda: «Ti serve un diploma». Subito. H liceo cosa ti dà dopo? E a noi, generazioni del dopoguerra che volevamo tutto e subito, l'Università appariva non come un naturale compimento di studi, ma come un'appendice agli studi già fatti, anche se poi la frequentai in pieno '68. Così m'iscrissi a una scuola per chimici conciari che lasciai dopo appena tre mesi. Mio padre Alfonso (19171996, quello stempiato al centro della foto), che era molto più pratico di mia madre, mi disse «Me. car fieul, a casa nostra chi non studia rusca». Detto fatto come per altri sei mesi - il giorno dopo mi ritrovai alle sei del mattino sul pullman che partendo da Porta Palazzo, portava in Bertolla all'Abbadia di Stura. Le Fonderie Rossi erano in mezzo a un gran prato, fabbrica enorme coi suoi tre capannoni e i comignoli dei sei forni che svettavano come fumaioli di una nave. Una fila infinita di vetrate, spezzate in piccoli prismi, la rischiarava dall'alto come una chiesa. Il carro ponte correva da un forno all'altro, portando nelle bocche dei forni tonnellate di rottami. La prima volta che vidi mio padre dirigere una colata, fu un'esperienza che ancor oggi, a 37 anni di distanza, ricordo con un misto di orgoglio e invidia per quel piccolo uomo. Allora non potei fare a meno di paragonarla a un rito, una specie di messa pagana, non solo per i movimenti studiati di tutti i personaggi, ma anche per la concentrazione-silenzio che precedeva sempre la «cerimonia», rotta al suo culmine invece dall'urlo di mio padre che estraendo una stecca di ferro dal metallo fuso, dopo averla scrutata e saggiata infinite volte, urlava «L'è bun», cioè è buono per essere colato. Ed ecco che allora, come a messa al tintinnio dei campanelli avanzano i chierichetti, avanzavano i «fondichiericheti», che portavano a mano verso la bocca del forno incandescente un enorme cucchiaio con due braccia, «'1 griseul», la siviera, iniziando a riempirla di metallo fuso, rosso, fumante, pastoso, ma liquido in profondità, come sangue nuovo. Appena colma, con una perizia che si perde nella notte dei tempi, i due fonditori ad un nuovo comando iniziano a versarlo nelle forme disposte a semicerchio ai loro piedi. Per il fumo, per l'odore di salnitro usato abbondantemente, quell'antro non potei non paragonarlo ad un girone dantesco. Momento delicato e pericolosissimo quello della colata, con il metallo fuso a 1500 gradi, che continua a galleggiare e talvolta fuoriuscire dalle forme prima di soh'dificare. Tutti i partecipanti dovevano muoversi con molta cautela con un cerimoniale studiato e collaudato per evitare qualche scheggia impazzita di metallo incadescente. Anche le forme dei particolari da fondere erano capolavori di ingegneria edile e idraulica, preparati da quelli che allora si chiamavano «formatori a mano», veri artisti della terra. Non potei stupidamente, la prima volta che h vidi all'opera - raggomitolati a terra con quella piccola spatola in mano - non paragonare il loro lavoro quei giochi di sabbia che fanno i bambini al mare con le formine. Salvo vergognarmi quando mio padre mi spiegò che era un lavoro di precisione estrema, durissimo, svolto pressoché sempre in ginocchio per 8, 10 ore al giorno, che bisognava amare con grande passione; e che tutti quei beccucci ritorti che sporgevano dalle forme non erano ornamenti ma «anime», da cui avrebbe respirato il metallo fuso. Mio padre, orfano, nato in Vanchiglietta, «'1 borg del fum», era stato allevato dagli zii, entrambi fonditori, come pure suo fratello e suo cugino. Apartire dai 12 anni, tutti avevano lavorato in fonderia. Il primo lavoro dei dodicenni era quello di seguire i cavalli che passavano fuori dalla fabbrica e riempire una cesta di «buse» che venivano poi mescolate alla terra rossa del Canavese usata per gli stampi, per renderla più grassa e ionizzata. Fortunatamente per me negli Anni 60 l'usanza era scomparsa. Mio padre aveva ereditato il posto di capofonditore da uno dei miei zii andato in pensione. Aveva però anche ereditato le camicie, verdi per il rame che trasudava dalla pelle e che mia madre non riusciva a lavare, le scottature almeno una volta al mese, e buon ultima la silicosi, come pre liquidazione di tutti i fonditori. Nel 1965 la fonderia, la più grande dell'epoca della provincia di Torino per bronzo e le sue leghe, chiuse i battenti per la morte del padrone, il «baudru», come lo chiamavano gli operai. Penso che fu il vero inizio della fine di un'epoca industriale per Torino, premonitrice di quella che sarebbe stata la sua odierna recessione industriale. E anche la fine di un'arte tanto rischiosa quanto affascinante del saper fondere il bronzo, ormai pressoché scomparsa. Da quella lezione di vita che mio padre aveva voluto impartirmi, capii che quello non era il mio posto, e dal giugno successivo non feci più ritorno in fonderia. A ottobre ripresi a studiare ma non più chimica. Non ho però dimenticato quelle centinaia di persone che lavorarono con mio padre, e sarei felice di parlare con qualcuno di loro. Da un paio d'anni mio padre se n'è andato in qualche fonderia del cielo. E so che sarebbe contento di queste quattro righe in suo ricordo. Quando era già in pensione da tempo, qualche mattina svegliandosi mi diceva: «Sai questa notte abbiamo colato quella enorme ruota per l'Italsider, siamo arrivati al pelo col metallo...». Quel sogno lo rendeva allegro per tutto il giorno. In alto una colata nelle Fonderìe Rossi

Persone citate: Bertolla, Giuseppe Roccati

Luoghi citati: Rivoli, Torino