Sonny, l'onesto predicatore di Alessandra Levantesi
Sonny, l'onesto predicatore Sonny, l'onesto predicatore Ne «VApostolo» di e con Duvall rituali religiosi, ma senza truffa CANNES. Di film sul fenomeno dei predicatori il cinema americano pullula e alcuni sono ottimi, da «Il figlio di Giuda» con Burt Lancaster a «La saggezza nel sangue» di John Huston. Di solito questi personaggi sono rappresentati in un'ottica sociologico-satirica come dei mistificatori che fanno della fede un gran circo per arricchirsi alle spalle degli ingenui. Ma «L'Apostolo» di e con Robert Duvall, in programma al Regard, è qualcosa di diverso: pur tormentato, paranoico, ostinato e possessivo, il predicatore Sonny non è un impostore. E' un centro propulsivo che si accolla l'intero film, lo porta avanti sulla forza della sua determinazione, delle sue convinzioni assolute, dei suoi umani errori. In quanto regista Duvall non entra nel merito del giudizio e lo spettatore neppure, non ne ha la possibilità: è letteralmente travolto dall'energia di Sonny dalla sua fede che sposta le montagne anche se non gli impedisce di colpire a morte in un impeto d'ira l'amante della moglie. E si è ipnotizzati dall'Apostolo, come da un carismatico uomo di spettacolo che conosce tutti i trucchi per trascinarsi dietro il pubblico. In pratica, l'Apostolo è Duvall stesso, che conducendo a termine questo progetto (prodotto, scritto, diretto e interpretato) dopo una gestazione durata tredici anni, si è ritagliato il personaggio della sua vita entrando nella cinquina dell'Oscar come miglior attore. Ma il film rivela anche una bella finezza di regìa per la spontaneità quasi docu¬ mentaristica con cui restituisce il clima fervido e festoso dei rituali religiosi, usando proseliti reclutati sul posto; e per la credibilità dei personaggi che ruotano intorno a Sonny, da Farrah Fawcett, la moglie scorticata, a Miranda Richardson, la donna con cui vorrebbe ricominciare, dall'adorata madre June Carter Cash al reverendo nero John Beasley che lo aiuta a rifondare una parrocchia. E nel complesso l'Apostolo appare come una specie di simbolo dell'America, violenta e indomita, senza radici e sempre proiettata verso nuove frontiere. Del resto il nomadismo come dimensione dello spirito Usa è ripetuto anche da un altro film presentato alla Quinzaine, «Slums of Beverly Hills», prodotto da Robert Redford e realizzato dall'esordiente Tamara Jenkins. In chiave autobiografica la graziosissima commedia ambientata nel '76 racconta la complicata storia di crescita di Vivian (impersonata dalla deliziosa Natasha Lyonne) in seno a un bizzarro gruppo familiare: gli Abramowitz, due fratelli e un padre (Alan Arkin), che essendo senza un soldo trasloca continuamente da un appartamento squallido all'altro di Beverly Hills. Buffo, divertente e tenero, il film contiene una scenétta da antologia: qùàijdó vivian e la cugina svitata Rita (Marisa Tornei) ballano agitando un vibratore, in una maniera che potrebbe essere oscena e invece risulta solo allegra e innocente. Alessandra LevanteSi
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