Giallo all'ombra della Casa Rosada di Mimmo Candito

Giallo all'ombra della Casa Rosada L'imprenditore Alfredo Yabran, accusato dal ministro Cavallo di essere «il capo della mafia» Giallo all'ombra della Casa Rosada Suicida l'uomo delpotere occulto BUENOS AIRES. Quando, l'altra notte, l'impresario Alfredo Yabran si è sparato una fucilata in bocca, ammazzandosi poco prima che la polizia argentina bussasse alla sua porta con un mandato di cattura, da molti palazzi del potere si è levato un grosso sospiro di sollievo. Yabran morto vuol dire che finiscono nella sua bara, insieme con lui, anche i molti segreti che in quasi trent'anni di affari aveva spartito con ogni forza politica porteria, senza tante distinzioni tra peronisti, radicali e forze armate. E un segreto sepolto dentro una bara cancella ogni rischio di complicazioni. Questi rischi erano molto alti soprattutto per il presidente Menem, e però anche per l'expresidente Alfonsin e anche per i generali che avevano martoriato il Paese negli anni della Junta Militar. Alfredo Yabran, 56 anni, 3 figli, un impero commerciale che spazia dagli aeroporti alle poste alle dogane e ai servizi di sicurezza, era l'imprenditore più potente dell'Argentina. Ma potente non tanto per le dimensioni dei suoi affari - che comunque superano i 2 miliardi di dollari - quanto piuttosto per la fitta rete di alleanze e di complicità che lui era riuscito a intrecciare con le corporazioni che controllano l'economia pubblica. «E' morto il capo della mafia», ha commentato con sintesi sbrigativa Domingo Cavallo. Cavallo era il ministro dell'Economia che pilotò il risanamento delle disastrate finanze di Buenos Aires: volevano fargli anche un monumento, in quei primi Anni Novanta, quando l'inflazione del 5000 per cento scese a zero; però poi Cavallo si era scontrato con Yabran («gli stiamo dando troppo potere», denunciò in Parlamento), e la sua carriera nel governo era finita di colpo. Yabran era più forte anche di un ministro-monumento. In Argentina, dove si ha buona memoria delle cose d'Italia, ora si dice che la morte di Yabran vale quanto quella di Calvi, il banchiere dell'Ambrosiano; forse anche più di quella, e ci aggiungono Gardini e i misteri che navigano tra Ri ina, le banche svizzere e il conglomerato politico-finanziario. Yabran era un rispettato frequentatore della Casa Rosada e della residenza presidenziale di Los Olivos, andava sottobraccio con Menem, conosceva ogni uomo che contasse qualcosa nelle decisioni pubbliche; e a nessuno era sfuggito che, nello stesso giorno in cui Cavallo ancora ministro tuonava contro di lui in Parlamento, in quello stesso giorno Carlos Menem sceglieva un aereo di Yabran per farsi trasportare a una visita nell'interno del Paese. La sua scalata ai grandi affari era cominciata al tempo della dittatura, negli ultimi Anni Set- tanta, quando si era prestato a fare da uomo di paglia nei più sporchi traffici che si facevano all'ombra della Junta. Sopravvissuto alla caduta del generali, era poi riuscito a farsi assegnare dal governo di Alfonsin il libero passaggio nei varchi doganali dell'aeroporto di Ezeiza, un potere che con Menem si era esteso a ogni pista d'atterraggio argentina: i suoi blindati passavano senza controllo di polizia o di dogana e - avrebbe detto più tardi un rapporto dei servizi Dea statunitensi - «per il narcotraffico questa è diventata la porta più importante e più garantita dei suoi itinerari latinoamericani». Tanti soldi facili lo avevano fatto anche un grande elettore, capace di decidere la sorte di ogni uomo politico che avesse ambizioni di potere. E la rete di complicità navigava lungo una frontiera incerta, chiacchierata ma ancora mai arrivata alla consistenza della condanna. Fino a questi giorni, quando un'ex-poliziotta ha fatto il nome di Yabran come mandante dell'assassinio del fotoreporter José Luis Cabezas. Cabezas lo avevano fatto fuori dopo che aveva scattato alcune foto di Yabran, foto difficili da avere, rarissime, perché Yabran ci teneva molto a nascondere la propria faccia. «Se mi fotografano, sono un uomo morto», aveva detto un giorno. Ma ora a morire era stato Cabezas. Tutti avevano detto che questa era una storia dove Yabran si trovava coinvolto fino al collo, perché dietro c'erano anche indagini e sospetti sul traffico di droga; però nessuna prova era stata ancora trovata, anche se gli uomini che venivano accusati di aver ammazzato l'impiccione erano tutti agenti dei servizi speciali di sicurezza di Yabran (gli stessi delle squadre che avevano operato nella Scuola Meccanica della Marina, centro di ogni tortura e violenza della Junta dittatoriale). Ma davvero come per il banchiere Calvi, come per Sindona, e per altri omicidi-suicidi eccellenti, ora c'è chi sospetta che l'uomo sfigurato dai pallettoni del fucile non sia affatto Yabran ma un Yabran finto; chi dice invece che quello è sì Yabran, ma che lo hanno «suicidato» per metterlo a tacere; e chi infine si chiede se dietro questa morte a premere il grilletto del fucile da caccia non sia stata la lotta sempre più aspra che Menem e Duhalde si stanno combattendo per la candidatura alle elezioni presidenziali del '99. Nell'Argentina tormentata già dalla cattiva coscienza dei troppi silenzi per i 30.000 desaparecidos, un'altra morte ambigua aggiunge nuovi dubbi su un potere politico che non riesce a liberarsi dell'ombra del passato. Mimmo Candito _ Titolare di un impero economico, sospettato dell'uccisione di un giornalista che lo fotografò per primo, ha lavorato dietro le quinte di molti regimi Alfredo Yabran con una foto del giornalista argentino assassinato José Luis Cabezas e, nella foto piccola il presidente Menem

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